Lo scorso 14 aprile alle ore 17 arrivavo all’aeroporto di Oslo e tutto era teoricamente pronto per partire alla volta del Summit degli Young Global Leader 2012 a Puerto Vallarta, Messico. Alle 17:15 scoprivo che la transazione di acquisto del mio volo non era andata a buon fine per qualche misterioso motivo e realizzavo che, per altrettanto misterioso motivo, non avevo ricevuto nessuna notifica. Al banco del check-in continuavo a ripetere “non è possibile“.
Non ho smesso di guardare l’orologio per le due ore successive. Alle 17:18 cominciavo a pensare che avrei dovuto cercare una soluzione alternativa per raggiungere Puerto Vallarta. Alle 17:22 scoprivo che le rotte comode erano tutte fully booked! Alle 17:28 ero seduta ad un bar dell’aeroporto e grazie a computer e free WiFi cercavo un’alternativa su skyscanner.
Alle 18:15 avevo una soluzione. Oslo, Londra, Washington, Los Angeles, Puerto Vallarta. “Bell’inizio” – mi sono detta. “Spero ne valga la pena” – ho pensato, con uno scetticismo che non risparmiava un millimetro cubo di me stessa. Ma ne è valsa la pena. Eccome.
E la ragione è questa: ascoltare le storie di persone che vogliono migliorare il mondo ci da energia e se desideriamo lottare per quello in cui crediamo, la condivisione aiuta ad essere più combattivi, a capire dove potremmo trovare il giusto consiglio, il giusto esempio, il tassello mancante.
Durante i sei giorni di Summit in Messico ho pensato spesso a CheFuturo! e all’importanza di creare una piattaforma per incrementare il dialogo, la critica costruttiva, l’evoluzione. Immaginate di essere invitati ad un evento che porta scrittori e lettori di CheFuturo! in uno stesso posto, un posto bellissimo in Italia, per discutere di sfide globali con cui noi e le future generazioni ci confronteremo.
Immaginate quante storie da raccontare e da ascoltare. Quanti problemi da discutere. Quante idee. Quante proposte. E quante task force potremmo provare a creare decidendo di concentrarci su problemi urgenti, unendo le forze e pianificando le azioni.
Questo è stato il Summit. Un’occasione per confrontarsi con gli Young Global Leader provenienti da ogni parte del mondo, discutere di sfide globali e familiarizzare con una piattaforma che permetta di proporre nuovi progetti o di diventare parte attiva di iniziative già in fase di sviluppo. L’obiettivo è operare per il bene di una comunità, di un paese, del pianeta.
Prima lezione, la più importante. Senza l’Inglese, a quel Summit, non sarei stata quello che sono, perché non avrei avuto nessuno strumento per interagire. Lo so, è una cosa che ripetiamo con talmente tanta noia che sembra non avere più la giusta importanza.
E invece ne deve avere. Alex Pentland, direttore dello Human Dynamics Lab e dell’Entrepreneurship Program al MIT, in un articolo pubblicato sull’Harvard Business Review descrive cosa rende un team vincente: è l’energia che, in quanto essere umani, siamo in grado di scambiare nella comunicazione face-to-face. Questa parte dell’interazione è fondamentale ed il linguaggio è uno strumento potente per comunicare ciò che vogliamo, nel giusto tono, con la giusta forza, precisione, efficacia.
Il programma del Summit cominciava ogni mattina alle 8 e si concludeva la sera verso le 19. Per quattro giorni. Non è stato una successione di discorsi celebrativi e di pacche sulla spalla, ma una chiamata per tutti gli Young Global Leader (YGL) a partecipare attivamente. Ognuno era libero di stabilire in che misura partecipare e sarebbe stato un peccato decidere di non farlo a causa dell’inglese. La vostra idea potrebbe essere l’idea del secolo, le vostre parole potrebbero cambiare la vita di qualcuno. Le idee e le parole non dette rimangono purtroppo invisibili. Il sistema scolastico ha una grande responsabilità, e dobbiamo fare in modo che cambi in meglio, ma appelliamoci anche al nostro buon senso: ci sono mille modi per migliorare. Un po’ alla volta. Anche se a scuola abbiamo imparato poco o nulla.
L’ultimo giorno del Summit ho parlato con Erik Charas, una delle persone più cariche di energia che ho incontrato negli ultimi anni. Erik, Young Global Leader, nominato anche Africa’s New Leader of the Next Generation, è ingegnere, attivista e fondatore del Journal @Verdade, una testata in Mozambico con più di 600mila lettori. È impegnato nel settore Media e Comunicazione, Trasporti, Edilizia con lo scopo di garantire accessibilità a chi ha basso reddito. Ci siamo soffermati a parlare di comunicazione e dell’importanza dell’inglese. Il nostro punto in comune è stato che la parola “globale” ha senso nella misura in cui possiamo vivere quella globalità, non virtualmente ma praticamente.
Un paese che non riesce a comunicare con il resto del mondo resta isolato. E quando parlo di “paese” intendo una moltitudine di individui, di ogni età, che possono costruire nuove conversazioni, ogni giorno, con altri individui che sono dall’altra parte del pianeta.
Quello scambio è stato prezioso. All’indomani della mia nomina mandavo una email a Janet Gunter, una cara amica ex aid-worker che per anni ha lavorato su progetti in Brasile, Portogallo, Timor Est. Una di quelle persone combattive che colpiscono per integrità e rigore, e con un grande sorriso. Mi scriveva: “the only way to bring change, sometimes, is to work within institutions“. Forse qualche anno fa non avrei capito queste parole. Seconda lezione: “Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, ma dai nostri figli“, loro sono i leader di domani. Ma leader non ci si improvvisa.
Una delle cose che ho sentito con più frequenza durante la mia adolescenza è stata: “non entrare mai in politica, la politica è una brutta bestia”. Non c’è frase più azzeccata per alimentare l’assenza di cambiamento in un paese, per instillare l’idea che sia logico formare ingegneri, avvocati, cuochi, artisti, architetti, designer, programmatori, dottori ma si consideri impossibile formare i futuri governanti del pianeta. Al Summit ci è stato spiegato che durante i cinque anni in carica ogni YGL ha la possibilità di frequentare un intenso corso in Responsible Leadership alla Kennedy School of Government presso l’Università di Harvard. Ho incontrato Young Global Leader giovanissimi che ricoprono cariche politiche, che hanno studiato duramente per quel fine e lottano contro la corruzione, lottano per garantire accesso a risorse vitali.
Chhavi Rajawat è il sindaco di un antico villaggio in India, Soda, a 60 km dalla città di Japur. È una donna dolcissima, elegante e forte come un leone, alla guida di 10mila anime con l’obiettivo di garantire accesso ad acqua potabile, protezione delle foreste, sistema sanitario dignitoso, educazione, elettricità, costruzione di nuove infrastrutture e dialogo tra gli abitanti di Soda ed il resto del paese. E scrive di sé: “Sono una ragazza che viene da un piccolo villaggio e che ha avuto l’opportunità di studiare in alcune tra le migliori scuole del paese. Sono solo tornata a casa per lavorare con e al servizio della mia gente“.
Ho incontrato Fred Swaniker fondatore dell’African Leadership Academy: dal Sud Africa, una scuola che ha l’obiettivo di formare e supportare i futuri governanti del paese attraverso un programma molto intenso in leadership, entrepreneurship and African Studies.
Ho partecipato ad un workshop sull’arte del parlare in pubblico guidato da Lisa Witter: è partita da una analisi accurata di un discorso di Barack Obama, della sua voce, delle pause, delle movenze, dell’organizzazione dei contenuti e dell’importanza di saper comunicare con chiarezza proponendo delle storie che possano informare ed ispirare il pubblico. Ci ha trascinato nella creazione di un brevissimo discorso che ognuno ha condiviso con gli altri partecipanti. Esercizio frenetico, impegnativo e stimolante. Alla fine del workshop ho annotato le parole di Lisa: “Essere leader significa lottare per innescare cambiamento positivo per la società intera, non per un gruppo privilegiato“. Suona bene. Ma credo sia anche una verità – per me più scomoda del dire che non cambierà mai nulla, che tutto è perduto – perché mi fa sbattere il muso contro l’opportunità di potermi impegnare per vedere quello che vorrei vedere. Nel mio paese. E sento questa responsabilità.
Al nostro arrivo in Messico, il primo incontro ha avuto l’obiettivo di fare incontrare gli YGL eletti nel 2012 e discutere sui principi guida della community, l’importanza di intraprendere sfide in aree e discipline anche lontane dalla nostra area di interesse collaborando con altri YGL. Eravamo circa 200, da 59 diversi paesi ed abbiamo assistito ad una serie di presentazioni. Una storia mi ha colpito più di tutte. Kohey Takashima, è uno dei fondatori di un’ iniziativa che ha il nome di Beyond Tomorrow, task force creata nel 2011 dai YGL in Giappone per supportare le vittime del terremoto, per sostenere quei giovani che hanno perso tutto, facendo in modo che non perdano la speranza. L’obiettivo è offrire borse di studio che consentano loro di frequentare scuole ed università, in Giappone e all’estero, al fine di realizzare i propri sogni, con la speranza di diventare i leader di domani.
E nelle sue parole c’era energia, ottimismo, umiltà, niente pietismo o compassione. Molta empatia. Nelle sue immagini ho visto piccoli gruppi di studenti che invece che mollare la scuola sono riusciti ad andare avanti, nonostante non avessero più nulla. E Kohei ha sottolineato l’importanza del tempo che hanno fisicamente dedicato a questi ragazzi, l’importanza del dimostrare che qualcuno contava su di loro. Se anche avessero potuto salvare un solo destino, sarebbe stato abbastanza. E qui la terza lezione: “non è importante quanto è piccolo ciò che realizziamo. Se può migliorare anche solo la vita di un singolo individuo, vale la pena di essere perseguito con tenacia.”
Da quel giorno mi ripeto spesso quelle parole. E sono sempre più convinta che per cambiare il mondo non si debba andare troppo lontano, spesso le opportunità sono dietro l’angolo.
Ho cercato quelle occasioni, anche durante il Summit, e mercoledì 18 aprile ho preso parte al Dignity Day, il giorno della dignità, che ci ha portato in tre scuole medie locali. Il progetto è iniziato nel 2006 grazie all’impegno del Principe di Norvegia Haakon, del filosofo Pekka Himanem e di John H. Bryant, fondatore di Operation Hope. Il progetto che è già attivo in USA, Mongolia, Messico, Finlandia, Norvegia, Sud Africa e si prefigge la missione di entrare nelle scuole e aprire un dialogo con i ragazzi su cosa voglia dire dignità, tutto attraverso le loro storie, attraverso la loro interazione. L’idea di base è che rafforzare la dignità degli altri è una delle missioni chiave di una buona leadership. E ognuno di noi può farlo ogni giorno. La giornata è stata emozionante, una bomba di energia. Abbiamo lavorato con circa cento studenti, a tratti divisi in piccoli gruppi. Io, il principe Haakon e Benedict Carandang abbiamo facilitato una classe di venti alunni, ho ascoltato e raccontato. Una bellissima esperienza documentata in questo articolo scritto da Louis Dominguez.
Sono arrivata al Summit con una marea di dubbi su come avrei potuto contribuire, su cosa avrei detto, sull’essere o non essere all’altezza. Dal primo momento è stato chiaro che i miei dubbi erano gli stessi di molti altri Young Global Leader. Sono stata fortunata ad avere un eccellente compagno di viaggio durante questa avventura, Tom Halsør – come me information designer – con il quale ho condiviso perplessità, entusiasmo, dubbi, workshop, presentazioni e incontri.
Questa condivisione mi ha aiutato a scavare e capire che di fronte a me ho un’opportunità: posso usarla come voglio e come posso, ma è un’opportunità che darà i suoi frutti nella misura in cui cercherò di coinvolgere e di essere coinvolta nella comunità degli YGL. Una delle task force create nel 2011, Thirst4Water, potrebbe essere un ottimo inizio per offrire tutta l’esperienza che ho accumulato durante lo studio dell’acqua virtuale e dell’impronta idrica. Ma adesso è troppo presto per decidere, sto ancora digerendo tutto quello che ho visto e sentito e credo mi serviranno un paio di settimane.
Ad ogni modo, credo che la missione sia dare tutto ciò che posso dare al mio paese.
Città del Messico, 29 aprile 2012ANGELA MORELLI