Troppi interessi sui dati personali: colpire Google serve a poco

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È emersa adesso in piena luce una battaglia che era in corso da tempo tra opposti diritti dei cittadini. Gli esiti sono ancora impossibili da prevedere, ma si sospetta siano destinati a impattare sugli aspetti che più legano internet alla democrazia e alla nuova cittadinanza.

L’ultima, miliare vicenda di questa battaglia è la super commentata sentenza della Corte di Giustizia Ue su Google. La Corte dice che un utente ha diritto a chiedere a un motore di non apparire tra i risultati. E poi a rivolgersi al Tribunale o al Garante della Privacy, se il motore si oppone. Il motivo è che “il gestore di un motore di ricerca su Internet è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi”, dice la Corte.

Ed è una rivoluzione. È la prima volta che viene riconosciuto in modo così esplicito il diritto alla privacy– qui inteso in particolare come diritto all’oblio– contrapponendolo al diritto degli utenti di accedere alle informazioni.

Chiariamo subito che le conseguenze ultime sono ancora tutte da vedere. I motori saranno sommersi di richieste? Come decideranno le diverse corti nazionali, sulla scorta di quella sentenza? Si sa già che il Garante della Privacy italiano è favorevole al diritto all’oblio e anzi è stato tra i sostenitori dell’approccio che ha poi portato a questa sentenza. Ma in ogni sede l’esito non è scontato. La stessa Corte avvisa che bisognerà trovare un equilibrio tra il pubblico interesse ad accedere a quelle informazioni e il diritto dei singoli a non renderle accessibili.

Bisognerà valutare di caso in caso: se è un soggetto pubblico avrà meno diritto all’oblio; se le informazioni sono vecchie e sorpassate, questo diritto acquisisce più forza.

Non sfuggirà che privacy e accesso alle informazioni sono due aspetti fortemente connessi a libertà e principi democratici.

Finora è una materia che la giurisprudenza europea ha risolto in modo soft (con qualche eccezione): imponendo solo ai siti web di togliere dall’indicizzazione o di aggiornare informazioni illegittimamente lesive della privacy. Quanto stabilito dalla Corte è un salto perché ritiene ci sia una responsabilità anche del motore. Non è una novità di poco conto. Significa due cose. Si riconosce che il motore è responsabile perché organizza l’indice con un algoritmo di propria fattura; ma si riconosce anche una “responsabilità oggettiva”: cioè l’effetto pratico secondo cui solo grazie a Google possiamo trovare (facilmente) quelle informazioni.

Non è tanto diverso dall’evoluzione della giurisprudenza sul diritto d’autore. Anni fa i siti di torrent erano considerati motori di ricerca neutri. Adesso invece i giudici li condannano riconoscendo il loro ruolo di facilitatori della pirateria (il loro effetto pratico, appunto). Nel caso del motore e del diritto alla privacy, è come se la Corte considerasse i link e l’indicizzazione una “schedatura”. Ossia la formazione di un profilo su quella persona, dato in pasto al mondo su internet.

«La sentenza dimostra che andiamo verso la ricerca di un equilibrio tra diversi diritti, ma ancora non l’abbiamo raggiunto», dice Juan Carlos de Martin, docente del Politecnico di Torino e tra i massimi esperti di diritti di internet. «Anche il New York Times, pur dicendo che la sentenza è eccessiva, ha detto che ci vuole qualche passo in più verso un diritto d’oblio», aggiunge. E il New York Times è alfiere del diritto di accesso e di espressione, valori che negli Usa contano molto di più della privacy (a differenza dell’Europa).

«Finora solo i ricchi potevano esercitare il diritto all’oblio: pagando agenzie che riescono a rendere meno o per niente ricercabili informazioni lesive per i loro clienti. Adesso andiamo verso una democratizzazione di questo diritto».

Si tratta di trovare un equilibrio: è questo il punto. I sostenitori dello status quo del web affermano che informazioni vere e complete devono essere sempre accessibili; e che al limite c’è il diritto solo a completarle. Per esempio a fare apparire in evidenza, nei risultati di un motore, non solo una denuncia ma anche (soprattutto, forse) la successiva assoluzione.

Ma il concetto di informazione corretta e veritiera è più complesso di quanto appare. Una foto pubblicata da ubriaco quando si era ragazzi riflette ancora quello che si è, anni e anni dopo? È corretto che una persona sia identificata con quella cosa, magari con maggiore evidenza su un motore rispetto a decine di articoli seri scritti anni dopo sulla storia dei sunniti? Ma anche, più sottilmente: un commento infuocato contro qualcuno può contenere fatti veritieri; ma è corretto che appaia al primo posto di una ricerca fatta con il nome di quel quella persona? A scapito di altre informazioni, invece positive? Chi lo decide? Solo l’algoritmo e i suoi parametri, quasi fossero oggettivi portatori di verità?

Siamo rappresentati da ciò che si dice di noi. E questo “si dice di noi” coincide sempre di più con ciò che si legge su internet. Quali sono gli strumenti di controllo più idonei che possiamo utilizzare su questa rappresentazione di noi? È possibile che quelli indicati dalla Corte siano grossolani, un po’ come tagliare una torta con una pala. Il rischio non è solo quello di privarci di alcune particolari informazioni; ma anche di alterare tutte le logiche alla base dei motori e quindi di renderli ancora meno neutrali mediatori di conoscenza. Tanto che secondo qualcuno la sentenza accrescerà il potere arbitrario dei motori, piuttosto che incatenarlo.

Ma sarebbe altrettanto grossolano dire che questa torta non bisogna tagliarla. Lasciare tutto com’è. Non solo: naif sarebbe anche vedere il problema solo sui motori di ricerca. In realtà è molto più ampio e invece il grande tema dei big data, potenziale fattore di discriminazione in società (sul lavoro, sull’accesso al credito o ad altri servizi). L’ha detto persino il Governo Usa, in un rapporto recente, molto atteso. Lo scandalo delle intercettazioni americane costringono un po’ tutti insomma a fare maggiore attenzione ai diritti della privacy. Nel caso di Google, vi si contrappone il diritto di accesso alle informazioni e quindi alla conoscenza; alla formazione di un giudizio informato, che è un caposaldo della democrazia. Nel caso dei big data raccolti da banche, assicurazioni, catene di negozi, agenzie varie, al diritto della privacy si oppone invece la libertà dell’impresa di utilizzare ogni mezzo disponibile per fare più soldi. Ossia ridurre il rischio, personalizzare l’offerta e trovare lavoratori (che reputa) migliori.

Certo, è più facile imporre qualcosa a Google che affrontare l’intera questione e toccare i forti interessi di vari soggetti nazionali a raccogliere dati sulle persone.

Ma sarebbe una soluzione non solo parziale ma anche distorsiva dei diritti. Ne verrebbe infatti limitato proprio quel trattamento di dati che è più vicino al pubblico interesse.

Il problema è così complesso, investe così tanto gli equilibri di diversi diritti, che forse non andrebbe affidato a una Corte di Giustizia il compito di tagliarlo con l’accetta. La collocazione giusta è politica e di livello almeno europeo. L’occasione verrà dal regolamento Data Privacy, di recente passato al Parlamento UE e che ora aspetta il passaggio al Consiglio. Sarà la prima normativa europea sulla privacy ai tempi di internet, aggiornando quella datata 1995. I nostri riflettori dovrebbero essere puntati in questa direzione per capire che piega dare ai nostri diritti.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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