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Tutti gli scienziati italiani che hanno inseguito il bosone di Higgs

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Vogliamo dire un’eresia? Diciamola. L’Italia l’ha vinta eccome una finale, nell’ultima settimana. Ed era la finale di un campionato durato oltre vent’anni, altro che due settimane. E una finale di cui molto probabilmente si parlerà ancora tra decenni, secoli forse. Mentre della sconfitta di Kiev, diciamocelo, tra qualche settimana in molti si saranno scordati persino il pesante punteggio.

La sua finale l’Italia l’ha vinta il 4 luglio quando a Ginevra, sul palco dell’auditorium del CERN, seguita da qualche centinaio di cervelloni presenti sul posto e in diretta web da chissà quante migliaia di spettatori, è salita una donna italiana brillante, gentile e tenace. Era Fabiola Gianotti, fisico, portavoce dell’esperimento ATLAS (uno dei due esperimenti principali “montati” sul gigantesco acceleratore di particelle LHC, vicino a Ginevra e sotto al confine tra Francia e Svizzera).

Quanti campionati europei valeva l’applauso scrosciante, interminabile che l’ha investita quando ha annunciato che sì, il suo esperimento (proprio come l’altro gemello, CMS) ha “scoperto” (e i fisici hanno criteri molto rigidi, per usare quella parola) una nuova particella che con tutta probabilità è il bosone di Higgs? Bosone che per la cronaca (ma ormai saprete tutto, è sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo) è la più importante particella che mancava all’appello del Modello Standard, il castello di ipotesi con cui i fisici spiegano l’Universo.

Quella particella è stata oggetto di una caccia durata quasi mezzo secolo, prima tutta teorica, poi diventata sperimentale grazie a LHC. Una caccia in cui gli italiani hanno messo soldi (tanti, circa 80 milioni di euro l’anno durante la costruzione dell’acceleratore), tecnologie (i magneti che sparano le particelle ai livelli di energia necessari per far apparire il bosone di Higgs li ha costruiti l’Ansaldo) ma soprattutto migliaia di persone e una montagna di lavoro.

Giorni e notti insonni passati sottoterra a testare e regolare gli strumenti dei due esperimenti, e altrettanti davanti agli schermi dei computer per analizzare i dati. Anni di vita e carriera rischiati al buio, come ha ricordato ieri Nando Ferroni, il presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, mandando un pensiero a quelle centinaia di giovani fisici italiani che per anni hanno scelto di dedicarsi anima e corpo a qualcosa che poteva finire in un buco nell’acqua, rinunciando a lavorare su cose più semplici e rodate, magari più utili per arrivare a pubblicazioni e carriera. Insomma, non era lì per caso Fabiola Gianotti, a capo di una collaborazione internazionale fatta di migliaia di ricercatori.

Come non era lì per caso Guido Tonelli, altro fisico italiano che fino a dicembre coordinava l’altro esperimento, CMS.

E tantomeno è un caso che il direttore di ricerca del CERN sia un altro italiano, Sergio Bertolucci. Almeno in questo campo l’Italia è ancora una grande potenza, prima di tutto per energie e coraggio. E se quella vista ieri era davvero l’alba di una nuova fisica, faremmo bene a ricordarci a lungo di quanto il nostro paese abbia contribuito a farla sorgere. Sono soddisfazioni, magari anche un po’ più grandi del 2 a 1 alla Germania, e pazienza per il 4 a zero dalla Spagna.

Patriottismo scientifico a parte, e lasciando i fisici teorici a fare i conti con il Modello Standard (ne avranno ancora per anni, la partita non è affatto finita semmai ne è iniziata una nuova), c’è anche un altro senso in cui la vicenda del bosone di Higgs ha portato qualcosa di nuovo e di importante nella scienza. Spingendola in direzione decisamente open. Forse mai come questa volta una grande impresa scientifica è stata condotta “in pubblico”, permettendo a tutti noi di vederne anche i passaggi intermedi, le incertezze, l’incessante lavoro di “cucina” che consiste nel ripulire, anlizzare e combinare i dati raccolti dagli esperimenti.

Una novità che a tratti ha spiazzato i giornalisti scientifici, abituati alla rassicurante routine dell’annuncio ufficiale e definitivo, del comunicato stampa con la parola “scoperta” nel titolo, e della riservatezza totale mantenuta fino a quel giorno dai ricercatori.

Per il bosone, le cose sono andate diversamente. E non solo per le indiscrezioni che avevano iniziato a circolare già da giorni, rendendo un po’ meno sorprendente l’annuncio di ieri.

L’annuncio è arrivato “a pezzi”, con quella prima tranche a dicembre quando proprio Gianotti e Tonelli, in quello stesso auditorium di Ginevra, di fronte a giornalisti arrivati da tutto il mondo, dissero di avere intravisto qualcosa, ma non ancora abbastanza. Di avere capito dove Higgs non era, ma di non essere sicuri ancora di dove invece fosse. La maggior parte dei giornalisti arrivati lì si aspettava un po’ di più, tanto che l’inviato della BBC si era addirittura alzato per chiedere “ma perché ci avete chiamato”?

Col dovuto rispetto per il giornalismo anglosassone, è un po’ come se un giornalista sportivo (eravamo partiti da quella metafora, finiamo allo stesso modo), invitato alla semifinale dell’Europeo avesse commentato “non è ancora la finale, perché mi avete chiamato?”. Il divertimento è vedere le partite, non sapere il risultato finale. Nella scienza invece la maggior parte di noi era abituata a leggere solo i risultati il giorno dopo.

Ora, almeno per grandi imprese come LHC (se non altro per giustificare tutti i soldi spesi, se vogliamo vederla cinicamente), gli scienziati ci fanno vedere anche le partite. Costerà un po’ più di lavoro ai giornalisti, ma è più onesto, più divertente, più sano. E manca il bersaglio, a modesto parere di chi scrive, chi sostiene che in questo modo si rischierebbe di compromettere la fiducia del pubblico nella scienza. Certo in questo modo il pubblico vedrà anche i buchi nell’acqua, e non solo i successi (neutrino più veloce della luce docet). Ma vedrà finalmente la “vera” scienza, che non è il momento dell’Eureka, ma il graduale, paziente, fallibile e massacrante lavoro che lo precede.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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Scritto da chef

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