Non c’è mai stato un momento nel nostro passato in cui l’umanità stesse meglio di adesso. Sì, lo so, è difficile essere cosciente di quante cose vadano dannatamente male e – al contempo – fare una affermazione simile. Ad ispirarmi questo ottimismo sistemico è stato, tempo fa, questo video: ”The Joy of Stats. 200 Countries, 200 Years, 4 Minutes” di Hans Rosling (BBC Four).
Nel video si vede come, negli ultimi due secoli, l’aspettativa di vita e la ricchezza pro-capite sia estremamente migliorata per molte nazioni. Certo, non per tutte, e neppure è detto che non esistano altre potenziali minacce per la vita sul pianeta. Ma, se si guarda alla nostra salute, non possiamo non renderci conto di un fatto ben preciso: stiamo bene e non siamo mai stati meglio.
Il fatto di stare bene dipende da mille fattori: ricchezza personale ed alimentazione prima di ogni cosa e, ovviamente, anche quanto oggi conosciamo della nostra salute e delle patologie che la colpiscono. Nel giro di soli duecento anni la nostra società si è trasformata da una realtà ancora sospettosa nei confronti della scienza ad una centrata su di essa. Inoltre, negli ultimi decenni, siamo passati da un scienza come alternativa a dio ad una scienza di mercato.
Lungo questo percorso sono nate compagnie e aziende ora diffuse su tutto il pianeta in grado di accumulare ricchezze da fare impallidire intere piccole nazioni. Questa nascita ha rappresentato già in principio, se vogliamo, un segno di “consumerizzazione” della scienza. E da lì il processo non si è mai fermato.
Oggi viviamo in un mondo dove compagnie private come SPACEX lanciano in orbita ogni genere di oggetto volante e dove il dieci per cento del prodotto interno lordo delle maggiori economie del mondo, viene speso per la salute. (fonte: Wikipedia).
Se guardiamo alle aziende farmaceutiche, troviamo esempi come Johnson&Johnson (la più grande di tutte), che si assesta al quarantesimo gradino della classifica Fortune 500. Si tratta di una company che conta 120mila dipendenti diretti e oltre 60 miliardi di dollari di fatturato. Per fare un paragone, Apple (con i suoi 65 miliardi e la metà dei dipendenti) è poco sopra, alla trentacinquesima posizione. Il paragone tra Apple – una società consumer – e J&J o una qualunque altra farmaceutica potrebbe sembrare completamente fuori luogo e, effettivamente, per molto tempo lo è stato.
In questi ultimi anni però, la mutazione delle dinamiche economiche e culturali ha reso paragoni del genere meno ingiustificati. Da un lato, la necessità di essere sempre più efficienti e vicine al cliente finale (anche nei santuari della salute) sta cambiando le organizzazioni aziendali dall’interno. Dall’altro, la cultura digitale che permea la società ha mutato esigenze ed aspettative dei clienti, costringendo interi settori industriali ad importanti ripensamenti o a fare i conti con il traumatico ingresso di outsider.
Inoltre, questo è il 2012 e, Maya o non Maya, è l’anno in cui alcune grandi dell’healthcare stanno attraversando la loro “tempesta perfetta“. Il 2012, infatti, è stato definito un annus horribilis per il numero di brevetti healthcare che giungeranno a scadenza. Da qui al 2015, in seguito alla scadenza di ulteriori rilevantissimi brevetti, la classifica delle 50 ditte farmaceutiche più grandi (nessuna delle quali è italiana) potrebbe subire cambiamenti anche drastici o, persino, assistere a qualche sorprendente estinzione.
Questa crisi annunciata ha costretto molte compagnie a tornare ad investire nella R&S e, vista la natura dell’approccio contemporaneo, questa decisione si è spesso tradotta in nuovi progetti di ricerca in ambito biotech. Come conseguenza, la cultura di molte aziende si sta spostando da “una cura per tutti” a “un farmaco fatto su misura per te”.
L’healthcare sta uscendo dalla sua era “Ford” proprio mentre fuori imperversa la cultura di Rete, e questo mix è potenzialmente disruptive.
Un punto chiave di questo passaggio culturale è il cambiamento l’accesso pressoché totale all’informazione medica di base. Nell’istante stesso in cui una patologia, soprattutto se non particolarmente grave, ci colpisce noi ci trasformiamo in ePatients: persone capaci, attraverso la conoscenza distribuita in Rete, di informarsi sulle proprie condizioni così come sulle possibili cure.
La accelerazione tecnologica non colpisce un settore lasciandone immutati gli attori, bensì polverizza -e per molti versi espande- la filiera stessa. E lo fa imponendo a tutti gli attori esistenti la necessità di affrontare il cambiamento e, possibilmente, predisporsi a cogliere nuove opportunità. L’healthcare non è esente da questo effetto di deflagrazione digitale. E così, negli Apple Store, trovi dozzine di device medicali a meno di cento dollari. Strumenti che una volta avremmo trovato solo in farmacia ed avremmo acquistato solo dietro consiglio medico.
Da qualunque angolazione si osservi questo mercato oggi, non si può non notare una riconquistata centralità dell’uomo. E questo è solo l’inizio! C’è una storia emozionante che spero in molti conoscano già e che, per chi non la conoscesse, vale la pena di essere raccontata. A luglio 201 mi sono imbattuto in questo talk del TEDx Maastricht.
Pochi video mi hanno colpito tanto quanto questo. Innanzitutto perché lo speaker non avrebbe dovuto essere lì: Dave deBronkart, malato di cancro, sarebbe dovuto essere deceduto alcuni anni prima. Quella che Dave ha raccontato al pubblico del TEDx (e alle oltre trecentomila persone che hanno visto il suo talk online) è la sua esperienza con la malattia. Attraverso la conoscenza che, da paziente, ha acquisito in Rete grazie ad altri pazienti, è stato in grado di cambiare il proprio destino. Partendo da una diagnosi di 24 settimane di vita è riuscito a sconfiggere la malattia. La sua cura, come è ovvio, non è detto che possa curare altre persone. Il suo approccio, invece, forse, sì.
Il messaggio forte di Dave è sintetizzabile in due semplici claim universali: ”Let’s patiens help!“, fateci aiutare dai pazienti. I pazienti sono la risorsa meno utilizzata dal settore healthcare e questo deve cambiare. “Give me my raw data!“, i pazienti hanno il diritto di avere un accesso comprensibile e trasparente alle diagnosi così come ai dati grezzi che li riguardano.
Dave deBronkart è una persona speciale: lui è l’archetipo di ePatient. Un paziente equipped, enabled, empowered, engaged, equal, emancipated ed expert. Un paziente aumentato dalla propria motivazione come dalla Rete. Ma l’essere ePtient non è una cosa di per sé nuova. Sentite cosa dice Dave:
«Nell’autunno del ’69 fu pubblicato “The Whole Earth Catalog”. Un giornale hippy che promuoveva l’autosufficienza. Noi pensiamo che gli hippy fossero solo degli edonisti, ma c’era una grossa componente – io facevo parte del movimento – una componente molto importante che riguardava l’auto responsabilità. Il sottotitolo del libro è “Accesso agli strumenti”. Tom Ferguson, era l’editore medico per The Whole Earth Catalog. E si accorse che per lo più le cose che facciamo in medicina e per la nostra salute è prenderci cura di noi stessi. Infatti diceva che per il 70-80% quello che facciamo è prenderci cura nel nostro organismo. Ma notò anche che quando la cura della salute ha bisogno di assistenza medica a causa di un disturbo più grave, ciò che non ci fa progredire è la mancanza di accesso alle informazioni. Con l’arrivo della Rete tutto è cambiato. Perché non solo è stato possibile trovare informazioni, ma anche gente come noi che poteva avere delle informazioni da condividere. E coniò il termine ePatient, un paziente con strumenti, motivazione e potere di cambiamento. Credo che chiunque abbia avuto – come mi capitò nel 2010 – l’opportunità di incontrare l’autore del Whole Earth Catalog, comprenda bene quale forte ispirazione personaggi perché personaggi come Stewart Brand siano stati in grado di influenzare il pensiero di una intera generazione, compresa gente come Steve Jobs. Che ci piaccia o no, dobbiamo alla controcultura Hippie, molto di più di quanto non pensiamo».
Questa nota hippie è utile a sottolineare che considerare gli ePatient un fenomeno non significativo sarebbe due volte un errore. Primo perché il fenomeno ha radici lontane e profonde. Secondo perché i fenomeni che fruiscono della accelerazione del digitale, raggiungono rapidamente il loro tipping point. Gli ePatients (con la loro conferenza di riferimento), sono pronti a fare di tutto per contribuire in prima persona a salvare le loro vite. Esattamente come Dave. Non un nemico di un establishment, ma un ulteriore attore in una filiera più ramificata e complessa di quella abituale.
Gli ePatients sono lo stadio uno della consumerizzazione.
La strada che lo shift culturale in atto ci porterà a percorrere, giunge molto più lontano. Dopo l’accesso all’informazione, la consumerizzazione ci porterà altri doni dai nomi impressionanti: c’è l’auto-monitoraggio del proprio stato di benessere – self tracking basati su device connessi. Più wellness che healthcare, forse, ma ancora più consumer. Nonché la complessa prospettiva della auto-diagnosi e, presto, della auto-cura.
D’altro canto, oggi portiamo in tasca una tecnologia superiore a quella che la NASA aveva a disposizione per portare l’uomo sulla Luna. Attraverso la Rete abbiamo a disposizione maggiore conoscenza di quella che, anche solo negli anni 50, poteva avere a disposizione il più potente uomo della Terra. Possiamo certamente aspirare a contribuire di più alla nostra stessa salute.
La semplice memoria geografica che hanno i nostri device, può ad esempio costituire un primo livello di estensione della medicina basato sui big data. Una cosa mai vista prima in questo settore. Questo speech di Bill Davenhall, intitolato “Your health depends on where you live” è magistrale e ascoltarlo vi darà un’idea tutta nuova del potenziale della memoria geografica insita nei nostri smartphone.
Smartphone che, dotati di sensori custom, stanno disegnando un modo tutto nuovo di pensare l’healthcare. Questi nuovi device sono così numerosi che non esito a definire questo processo “una sorta di invasione da parte di device medicali”. Anche solo a livello software, quella che si definisce mHealth (mobile health) rappresenta una interessantissima fetta di business. Basta pensare che, già nel 2011, il 17% degli utenti smartphone ha usato il proprio device per informarsi su argomenti healthcare. D’altro canto, sempre nel 2011, sono state scaricate 44 milioni di applicazioni di ambito health. Un segno inequivocabile del cambiamento di abitudini di noi “pazienti” rispetto alla cura di noi stessi. (fonte: PEW Research e Juniper).
La consumerizzazione in atto nel settore healthcare, sta adoperando leve di cambiamento culturale proprie del nostro tempo, ma sta facendo anche affidamento su diverse tecnologie. Da quelle biotech, fino all’Internet degli Oggetti. Appassionato da questo tema della consumerizzazione, in questi mesi ho raccolto alcune riflessioni su ePatients e li ho collezionati in un whitepaper intitolato appunto “La Consumerizzazione dell’Healthcare“. Lo trovate online sul sito dell’azienda per la quale lavoro e che, non a caso, si occupa di comunicazione digitale in ambito Salute. Di questo stesso tema avevo già parlato a TEDx, coniugando proprio design, health e Internet degli Oggetti!
Scaricate dunque il whitepaper, guardatevi tutti i video che ho citato, cercate ovunque ma, in ogni caso, fatevi un’idea del fenomeno in corso. Perché questo mondo è pieno di opportunità.