È passato giusto un mese dall’attesissimo IPO di Facebook, il più grande e controverso della storia del NASDQ, ed è difficile capire davvero cosa stia succedendo o cosa succederà. Facebook non è mai stato il social network più amato dall’opinione pubblica, ma è sicuramente il più utilizzato, con i suoi circa 900 milioni di utenti registrati. Io ho avuto l’onore di essere tra i suoi “primi” utenti, nel 2004, quand’ero alla London School of Economics, una delle prime università ad entrare nel circuito allora ristretto e prestigioso del già tanto “hyped” social network.
Dato che allora ero una snob interaction designer ne ho così odiato il look e l’interfaccia che mi sono rifiutata di usarlo fino al 2006, quando ho improvvisamente cominciato a sentirmi altrimenti esclusa da una buona parte delle attività della mia cerchia sociale.
Da allora l’ho usato ed odiato, ho giurato tante volte di abbandonarlo per sempre, eppure oggi come oggi è sempre aperto in un tab del mio browser e lo controllo quasi come faccio con la posta elettronica.
Prima di Facebook i social network esistenti li avevo provati tutti: da Orkut a Friendster, da Bebo a Netlog e così via. Ma Facebook è stato il primo dove non dovevo assumere un’identità alternitava, potevo essere me stessa e condividere informazioni e altro con i miei amici e parenti, non gente sconosciuta. Questa era davvero la genialità di Facebook, che aveva stravolto il paradigma dell’identità fittizia che allora sembrava essere una regola quasi imprescindibile dell’universo digitale.
Recentemente invece, mi sono trovata nella stessa situazione descritta da Stefano Bernardi qualche giorno fa: Facebook ha smesso di darmi notizie sui miei amici.
E sono arrivata alla stessa conclusione di Stefano: che oggi le persone usano Facebook per personal o brand marketing, e pochissimo per condividere informazioni con i loro amici. Che peccato, mi sono detta. Ma non ho smesso di usare Facebook, perché comunque mi fornisce la quantità maggiore di informazioni necessarie per il mio lavoro, e cioè sull’universo startup. Preferisco ancora avere notizie da persone che comunque rientrano nel mio network allargato piuttosto che dalla maggior parte dei blog e giornali.
Stefano dice che Facebook sta fallendo nella sua vision originaria, e cioè quella di essere un network di amici. Quello che penso io è che con gli anni, per fornire un servizio gratuito agli utenti, ha dovuto aprirsi e commercializzarsi, a danno della sua vision, per cercare un modello di business che lo rendesse monetizzabile.
Infatti oltre la vision c’è l’aspetto economico. Ora che è quotata in borsa, la pressione a diventare una società profittevole pende su Facebook come un macigno pesantissimo. Una società che vale 104 miliardi e che ha profitti per 200 milioni di dollari sembra un’enorme contraddizione economica per un mercato, anche quello un po’ strambo di Internet.
Riuscirà Facebook a fare il passo avanti di Google qualche anno fa o fallirà sia come prodotto che come modello di business?
A parte la sua discussa sostenibilità, il modello di business corrente di Facebook è apparentemente piuttosto tradizionale, advertisement, ma allo stesso tempo anche molto controverso, dato che si basa sulla profilazione e le attività degli utenti. Un modello che molti sembrano sintetizzare in qualcosa come: “Facebook spia quello che faccio e lo vende per far soldi”, cosa non così lontana dalla realtà.
Al di là delle questioni sulla privacy, che Facebook ha gestito piuttosto male fin dall’inizio, il fatto che esso abbia come condizione la ownership dei contenuti condivisi dagli utenti è un aspetto tanto spaventoso quanto necessario. Un infografico interessante pubblicato da MyCube mostra alcuni dati sulla monetizzazione del modello UGC (user-generated content), con lo scopo di rendere consapevoli gli utenti di quanto vengano “sfruttati” dai servizi che si basano sui contenuti da loro condivisi (vedi Youtube, Twitter e Facebook). MyCube sostiene che è ora che gli utenti ottengano un maggiore “empowerment”, riprendano possesso dei loro dati e ne traggano vantaggio. Questa a mio parere è però una contraddizione in termini: come possono gli utenti stessi monetizzare i loro contenuti se questo comporta la scomparsa dei servizi che rendono possibile la loro condivisione?
La realtà è che Facebook, a prescindere della sua gestione ed evoluzione, è molto di più di quello che sembra. È il rappresentante principale e simbolico di una tipologia di servizi che negli ultimi anni ha creato una delle più grandi rivoluzioni della storia umana. Il modello UGC di Facebook, Youtube, Twitter, Foursquare e tanti altri ha radicalmente cambiato il modello della comunicazione sociale, dell’intrattenimento, dell’informazione, e anche dell’advertisement. Questo modello ha già fornito un empowerment senza precedenti alle persone, fornendo loro strumenti potenti di comunicazione e liberandoli dalla crescente dittatura mediatica monodirezionale e imposta dall’alto di televisione, radio e giornali.
Twitter ha sostenuto la trasparenza informativa e la crescita di rivoluzioni in tutto il mondo, partendo dall’Iran, passando per l’Egitto e arrivando all’#Occupy degli Stati Uniti. Youtube ha ribaltato il modello televisivo tradizionale favorendo una maggiore scelta di contenuti e una più democratica ascesa al successo dei loro produttori e attori. Foursquare sta cercando di cambiare il modo in cui approcciamo le nostre città in termini di risorse a disposizione, non più valutate da una nicchia di esperti ma suggerite direttamente dal nostro social network. La massiccia penetrazione di Facebook in Italia ha permesso ai cittadini di opporsi per la prima volta al lavaggio del cervello di un sistema politico egemonico dal punto di vista mediale, e di coordinare proteste e rivolte contro di esso. E potrei andare avanti.
Per questo mi infastidisce alquanto leggere articoli che sminuiscono la portata dell’effetto-Facebook, anche se provengono da fonti autorevoli. Come nel caso di un recente articolo di Forbes che cita tra le sette ragioni per cui l’IPO di Facebook è stato un fallimento il fatto che “Facebook is not necessary…and not integral to the global economy”. Oppure un commento al top di un articolo di Techcrunch che sostiene che Facebook sia “just a website…not a life saving medical breakthrough, or a huge peace movement…a f@$king website”. Perché Facebook è tutt’altro che un f@$king website.
Ci piaccia oppure no, le nostre vite sono state radicalmente cambiate dai servizi UGC (a mio parere sostanzialmente in meglio), di cui Facebook è solo un rappresentante, ma piuttosto importante, ed ora è fondamentale trovare un modello economico che le sostenga. Dobbiamo essere preoccupati e sostenere Facebook in questo momento storico, non tanto perché ci piace il suo servizio o il modo in cui viene gestito, ma perché il suo fallimento potrebbe minare alla radice un insieme molto più ampio di servizi UGC.
Che l’advertisement basato sui contenuti condivisi dagli utenti e sulla loro profilazione sia il modello di business ideale per questa generazione di servizi, non posso dirlo. L’advertisement ha sostenuto fino ad ora l’universo mediatico di televisione, radio e giornali, e si sta, lentamente, dimostrando un sosteno più che dignitoso anche per i siti UGC. Al contrario delle predizioni di molti, Twitter sta diventando un business sostenibile grazie al mobile advertising, e anche Youtube, visto fino a pochissimo tempo fa come una causa persa, ha ora ricavi che raggiungono quasi i due miliardi di dollari all’anno.
Questo probabilmente anche grazie ad una maggiore profilazione sugli utenti che Google sta ottenendo attraverso i suoi servizi a 360 gradi. Il problema di Facebook sono gli altissimi costi che deve affrontare: mentre infatti i ricavi pubblciitari del Q1 del 2012 sono aumentati del 45% rispetto al Q1 del 2011, i guadagni sono scesi da 233 a 205 milioni di dollari per gli stessi periodi. Alcuni suggeriscono che Facebook ha ancora il potenziale di puntare sul mobile advertisement, al momento ancora poco sfruttato.
E forse il nostro Mark ha qualche asso nella manica che non conosciamo. Comunque sia, bisogna dargli tempo, sia perché l’online advertisement sta crescendo sempre di più ma ancora con ritmi piuttosto lenti e costi radicalmente inferiori rispetto ai media tradizionali. Sia perché la tipologia di servizi UGC ha ancora un modello di business poco chiaro e molto difficile da definire. Se così non fosse le menti geniali dietro servizi rivoluzionari come Facebook, Twitter, Youtube e Foursquare l’avrebbero già trovato.
Quello che ancora molti sembrano non comprendere è che ci sono diverse tipologie di servizi Internet e, mentre alcuni hanno modelli di business rivoluzionari ma anche relativamente più facili da definire, come Groupon o Netflix, perché rispecchiano modelli esistenti e funzionanti basati su transazioni monetarie. Altri, tipo quelli UGC, sono non solo nuovi ma anche lontani da modelli economici che presentano precedenti adattabili. E, a mio modesto parere, sono anche i più rivoluzionari a livello sociale e culturale.
Accettare e riconoscere che molti servizi UGC possono ancora non avere un modello di business sostenibile, anche in un momento di crisi economica come questo, ci pone davanti ad un bivio: correre il rischio che possano morire così come sono nati lasciando un vuoto quasi incolmabile nella società contemporanea, o adoperarci per sostenerne la crescita e la proliferazione. Quest’ultimo punto è necessario anche per favorire la nascita di nuovi servizi UGC alternativi o complementari a quelli esistenti. Lo sottolineo perché la tendenza corrente nell’ambito degli investimenti in startup digitali richiede, a prescindere dalla tipologia di servizio, la presenza di un modello di business chiaro che preveda la generazione di redditi a breve termine.
Tale tendenza è scaturita principalmente dalla crisi post-2008 e da una crescente diffidenza verso la redditibilità di servizi UGC. E sta rendendo sempre più difficile la nascita dei prossimi Facebook, Youtube, Twitter e Foursquare. Se questi non avessero avuto investimenti per milioni (o miliardi nel caso di Facebook) nell’arco di diversi anni, e si fossero focalizzati sul dimostrare fin dall’inizio la sostenibilità del proprio modello di business, non sarebbero di certo diventati quello che sono allo stato attuale. Per favorire perciò una continua innovazione del modello UGC e permettere lo sviluppo di servizi rivoluzionari come questi, è necessario che gli investitori ricomincino a credere e sostenere questo modello. Saranno poi gli utenti a decidere quali servizi UGC avranno successo, come nei recenti casi di Instagram e Pinterest.
Dunque mi auguro che Facebook diventi un business sostenibile, non tanto perché penso che sia il servizio ottimale UGC, ma perché rappresentante di una tipologia di servizi ora a livello anche più visibile. E se non ce la fa lui, ho paura che la diffidenza non solo del mercato e degli investitori, ma anche dell’opinione pubblica, si riversi su tutta una generazione presente e futura di servizi UGC che hanno e potranno continuare a cambiare il modo in cui comunichiamo, riceviamo informazione, ci intratteniamo, lavoriamo e organizziamo rivoluzioni.
Alternativamente, una tendenza auspicabile potrebbe vedere Facebook, che sembra continuare a perdere fiducia, diminuire la sua egemonia e la sua user-base, insieme alle sue pretese di essere omnicomprensivo e generalista, in favore di una generazione di servizi UGC più verticalizzati (vedi appunto Instagram e Pinterest). Facebook ha d’altronde sempre avuto l’obiettivo di diventare il social network per eccellenza, pagando il prezzo di abbandonare la sua vision originaria per seguire la strada della monetizzazione, con l’effetto di deludere gli utenti sempre di più continuando a vedere solo in lontananza la strada della profittabilità.
Potrebbe essere che servizi UGC più specifici e con numeri inferiori rispetto a Facebook abbiano maggiori possibilità di diventare monetizzabile nel lungo termine, avendo costi inferiori e una maggiore facilità di targettizzare gli utenti per l’advertisement. E Facebook stesso potrebbe concentrarsi sul diventare solo una piattaforma di personal marketing. Ma preferisco fermarmi qui non essendo né una veggente né un’esperta nel campo dell’advertising.
Il mio punto vuole essere quello di guardare a Facebook non come il caso isolato di un gigante egoista destinato forse ad essere punito per la sua ubris, ma come il rappresentante di un insieme di servizi che hanno provocato un cambiamento globale a livello sociale e culturale e che devono essere aiutati a diventare sostenibili nel lungo termine per garantire la sopravvivenza del modello, quello UGC. Possibili soluzioni potrebbero dunque essere:
- dare l’opportunità al mercato dell’online advertising di crescere e diventare maggiormente profittevole;
- continuare a finanziare servizi UGC anche con un modello di business non chiaro o basato sulla pubblicità per favorire competizione, varietà e complementarietà;
- provare a sostenere la strada di servizi più verticalizzati, rispetto a quelli generalisti come Facebook, con costi minori, una user-base inferiore e advertisement più targettizzato;
- vedere se Mark (o chi per lui) trova un modello di business alternativo senza perdere la popolarità del suo servizio, che possa essere applicato anche ad altri servizi UGC.
Questo è tutto wishful thinking naturalmente. Fuori c’è il mercato, e la crisi. Ma io sono una di quelle che continua a credere alle rivoluzioni.
Roma, 20 giugno 2012ARIANNA BASSOLI