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Una scuola a Gaza ci illuminerà tutti

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Il vero vantaggio, qui in Palestina, è che non esistono altre opzioni. Qui un architetto non può permettersi di ragionare con la stessa testa di 40 anni fa. Come altrove, anche qui le persone hanno bisogno di case, ospedali, risorse ed energia. Ma non basta costruire nuovi edifici e collegarli tra loro con una strada. Serve qualcosa di più. Io immagino un quartiere dove l’energia di tutte le case arrivi dai pannelli solari montati sul tetto della scuola e l’acqua venga depurata dalle piante che crescono nei giardini dove giocano gli studenti. In questa terra, se vuoi costruire qualcosa lo devi fare in modo diverso dal solito. Altrimenti è un tunnel verso il precipizio.

Il progetto per una scuola del genere lo stiamo realizzando davvero, a Gaza.

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Puntare su un progetto innovativo è l’unico modo per affrontare i temi legati all’ambiente e rovesciare i luoghi comuni che affliggono la Palestina. Perché questo è un paese che deve superare la fase della sussistenza e avviarsi verso quella dello sviluppo. Certo, senza l’aiuto delle missioni di intervento umanitario le cose sarebbero peggiori ma ci vuole anche qualcosa di più. Per lavorare in queste terre hai bisogno di credere in una visione: non esiste altra logica che funzioni.

Io la mia visione la sto costruendo con Building Green Futures. È nata qualche anno fa come organizzazione no profit in seguito a un’esperienza a fianco dell’agenzia ONU per i rifugiati della Palestina (UNRWA). Ora stiamo lavorando a un progetto per una scuola green che sorgerà a Gaza.

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So che qualcuno si sentirà scettico nei confronti dell’idea di portare tecnologie a basso impatto ambientale in un paese dove manca tutto, dall’acqua fino all’energia elettrica, ma non vedo perché i palestinesi dovrebbero fare a meno del concetto di sostenibilità.

Perché quello che stiamo realizzando non è un semplice transfert tecnologico: è un tentativo di migliorare le condizioni in cui vivono le persone dando loro la possibilità di gestire le proprie risorse in modo equo. E sono proprio gli edifici pubblici a rappresentare una prima forma di educazione. È quel tipo di architettura che cerca di dare dignità alle persone. Una scuola che d’estate mantiene la temperatura delle aule 6-8 gradi più bassa rispetto ai 40°C esterni non è un semplice vanto tecnico: è uno strumento che permette ai bambini di studiare meglio.

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E lo fa senza usare condizionatori elettrici, perché l’intero edificio è raffreddato dalla massa termica e dal lago d’aria sotto le fondamenta.

Tutto merito dell’acqua, uno dei paradigmi dei prossimi anni. Anziché puntare su sistemi di condizionamento elettrici, la scuola di Gaza regolerà la propria temperatura grazie all’acqua piovana e alla luce del sole che alimenta i pannelli fotovoltaici. In inverno, l’acqua calda circolerà nelle tubazioni per riscaldare le aule, mentre d’estate le serpentine funzioneranno al contrario, come sequestratori di calore. Sembra impossibile, ma in occidente non siamo abituati a una tecnologia del genere. In Italia, soprattutto, ci affidiamo ancora ai condizionatori. Ma qui in Palestina non hanno molto senso: non ce li potremmo mai permettere.

È così: le necessità reali del territorio tagliano fuori tutte le soluzioni insostenibili sul lungo periodo.

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Qui a Gaza la nascita di nuovi edifici deve essere vista come un’opportunità per far crescere l’intera comunità. È una forma di cambiamento radicale, una struttura che fornisce a tutti quelli che la frequentano ciò di cui hanno bisogno. Sono risorse che non vengono sottratte a nessuno. Anzi, ogni edificio green è in grado di contribuire al sostentamento del quartiere trasferendovi l’energia prodotta in eccesso.

Già, perché quando guardo questo progetto ci vedo una smart grid che va oltre i muri della scuola. L’energia elettrica qui non servirà solo per l’illuminazione led delle aule, o per alimentare i computer nei laboratori e gli ascensori per i bambini che non camminano: è un bene da condividere con tutto il quartiere. Dai fari nei campi da calcio fino alle pompe per la depurazione dell’acqua.

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E visto che qui la benzina costa troppo, basta poco per installare delle colonnine di rifornimento per le strade e diffondere le auto elettriche.

È un sogno che a tratti mi sembra quasi un delirio. Se ti guardi intorno capisci che non stai lavorando solo per dare un po’ di luce al quartiere. Non è solo questione di consumare energia pulita. Questa è una piccola rivoluzione per trasformare un territorio distrutto dalla guerra in un paese che vuole crescere. E l’architettura può fare da tramite in questa fase di passaggio.

Perché quello che stiamo realizzando in Palestina non è una colonizzazione tecnologica. È un travaso di conoscenza.

L’idea di fondo è che dopo aver costruito una scuola ad alte performance a Gaza, il modello può essere esportato ovunque. Paradossalmente, la realtà è un’altra: nel resto del mondo, dove realizzare progetti del genere sarebbe più facile, non riusciamo a dare spazio all’innovazione. Succede soprattutto in Italia, un paese che vanta una lunga storia nel campo della cooperazione internazionale ma che non riesce, per assurdo, a intervenire sul proprio di territorio. Noi utilizziamo il suolo con una aggressività senza pari. A volte ci dimentichiamo che è come un foglio di carta, delimitato da confini. Se riempiamo la sua superficie e costruiamo senza un criterio, presto lo esauriremo. La soluzione è semplice: possiamo continuare a costruire ma dobbiamo farlo in modo sempre più intelligente, rimpiazzando ciò che non funziona o non è sostenibile.

Ecco perché il progetto di una scuola green a Gaza non inseguirà mai logiche di profitto. È un tentativo di aprire a nuovi paradigmi e dimostrare che l’architettura sostenibile è una questione di cervello. A me non interessa l’hi-tech: io voglio costruire luoghi dove le persone possano vivere meglio. È qui che possiamo dimostrare che il mondo può essere cambiato. O meglio, che il futuro è qualcosa di completamente diverso dal passato. La Palestina crescerà senza centrali nucleari: tutta l’energia di cui avrà bisogno arriverà dalla smart grid a filiera corta. Un’energia prodotta in autonomia e condivisibile all’interno del territorio.

È questa l’unica strada per i paesi in via di sviluppo. È lì che avverrà la vera rivoluzione del terzo millennio. E non si tratta solo di risparmiare qualche centesimo sulla bolletta. Perché c’è una bella differenza tra ignorare chi produce l’elettricità che accende la tua lampadina e sapere che, invece, proviene dal tetto della scuola dei tuoi figli. Per me il futuro è proprio questo.

Bologna, 29 maggio 2012MARIO CUCINELLA

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Scritto da chef