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Venture capital, perché l’Italia deve investire. Adesso o mai più

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L’EVCA (European Private Equity e Venture Association) ha pubblicato i dati del settore per il 2012 con un report scaricabile online. L’associazione raggruppa un ampio raggio di attori: private equity, venture capital, fondi pensione, fondi di fondi, family office per un totale di 650 operatori. In questi dati c’è la radiografia del venture capital nel vecchio continente, insieme a una lettura molto interessante per le startup Italiane.

Le startup sono oggetti delicati e ad alto rischio e necessitano di capitali specializzati per partire e svilupparsi nelle prime fasi. Inoltre il venture capital è fondamentale perché è il primo anello nella catena alimentare della finanza, originando una parte non trascurabile di quelli che poi saranno gli oggetti di investimenti da parte di operatori ulteriori, inclusi i mercati strutturati come le borse.

In Italia, forse il miglior esempio è quello di Yoox, ex-startup che ha superato il miliardo di euro di capitalizzazione ed è leader globale nel suo settore, partendo dall’idea di un giovane imprenditore.

Le statistiche raggruppano i due grandi settori del capitale di rischio: venture capital – su cui mi concentrerò – e private equity (ovvero fondi che si occupano di buyout, replacement capital, salvataggi e turn-around, quindi specializzati in aziende già mature).

L’Europa ha investito nel 2012 €36.5 miliardi in capitale di rischio (-19% rispetto all’anno prima) finanziando circa 5.000 aziende. E, purtroppo occorre dirlo, salta subito all’occhio il ritardo Italiano in questo campo, considerando che investiamo meno di un terzo rispetto alla media europea (0,07% del PIL rispetto al 2,6%).

Ma colpisce ancora di più che la percentuale per il solo settore del venture capital è dello 0,004% del PIL in Italia contro lo 0,02% medio in Europa. Dopo di noi solo Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Grecia e Ucraina. C’è un macroscopico gap da colmare: è la cruda realtà dei numeri.

Se ne è occupata recentemente anche AIFI (associazione italiana di settore che curiosamente non è tra i partner della ricerca EVCA) analizzando gli investitori Italiani. Nonostante la grande base di investitori istituzionali, la maggior parte di essi non investe in capitale di rischio e una parte infinitesimale si avvicina al venture capital e quindi alle startu

Eppure il venture capital in Europa esiste eccome, visto che nel 2012, 556 firm hanno investito 3,2 miliardi complessivi.

Soldi provenienti da 952 fondi che hanno finanziato 2.923 startup (-14% sull’anno prima). È necessario sapere che una firm spesso può essere advisor di più fondi, entità giuridiche che identificano specializzazioni e investitori differenti.

Così come la catena alimentare della finanza è strutturata per ‘fasi’ della vita (e morte) aziendale, anche il venture capital è a sua volta stratificato in seed, startup e later stage (in genere grandi operazioni, come ad esempio l’aumento di capitale di Spotify dello scorso anno – azienda di musica digitale, che per inciso, nel 2013 punta a oltre 20 milioni di abbonati e 1 miliardo di euro di ricavi a pareggio).

Dei 3,2 miliardi di venture investiti nel vecchio continente, 100 milioni di euro sono andati nel seed, finanziando 353 startup (con un importo medio raccolto di circa 300.000 euro). Altre 1.796 in fase successiva, hanno raccolto 1,3 miliardi di euro (circa 700.000 euro di media) e 839 aziende hanno preso 1,8 miliardi di euro di “later stage” capital (investimenti di circa 2 milioni di media). Per il 60% operazioni di early stage prevalentemente nei settori lifescience, ICT/Internet e cleantech.

Una nota per le startup. Questi dati evidenziano se mai ve ne fosse bisogno che le valutazioni negli USA e i soldi investiti (fatevi i conti in tasca per il vostro fundraising) sono frutto di un ecosistema decisamente più competitivo, sviluppato, e molto più ricco. Per questo non sono necessariamente comparabili all’Europa. Un’operazione di “later stage” in America è in genere è sopra i 10 milioni di dollari.

È anche interessante osservare che nei flussi internazionali di capitali, l’Europa ha un saldo negativo di 159 milioni di Euro. Firm straniere hanno investito in startup del vecchio continente 210 milioni di Euro, mentre i VC Europei hanno investito 369 milioni in startup estere. C’è ancora poca consuetudine ad investimenti internazionali anche considerando che dei 2,9 miliardi intra-europei, solo il 19% (610 milioni) sono cross-border: 610 milioni di venture europeo investiti in startup di una diversa nazione del continente.

Nel 2012 il fundraising dei fondi di venture è stato molto difficile, specie il primo semestre. Gli operatori europei hanno raccolto 3,6 miliardi di euro, con una riduzione drastica rispetto ai 5,2 miliardi del 2011. È in corso un cambiamento profondo nel mercato del venture globale e lo scorso anno sono partiti solo 102 fondi rispetto ai 152 dell’anno precedente. L’unica nota ‘positiva’ di uno scenario che è molto difficile per la scarsissima liquidità, è che l’early stage è rimasto stabile raccogliendo 2 miliardi di euro. Soldi che attraverso la gestione di advisor specializzati nei prossimi anni finiranno alle startup. Capitali che si sommeranno a quelli già esistenti sul mercato dagli anni precedenti e che in questo momento stanno cercando attivamente nuovi investimenti.

Un fondo di venture capital, normalmente ha una durata di 8-10 anni, suddivisa in due fasi: una prima fase di investimento (in genere 4-5 anni), in cui viene costituito il portafoglio di partecipazioni, e una seconda fase in cui non si effettuano più nuovi investimenti ma ci si concentra sulle exit, fino alla chiusura del fondo stesso. Questi capitali freschi saranno quindi messi sul mercato nei prossimi 4-5 anni.

Altri dati importanti per capire “l’aria che tira” sono le statistiche sui disinvestimenti. Quasi 1.000 exit sono provenute dal venture capital, circa altrettante dal private equity. Nel venture principalmente: trade sales, write-off e vendite sul mercato secondario. Il problema grosso (negli Stati Uniti la situazione è del tutto analoga) è quello delle IPO. Le quotazioni in borsa hanno toccato un minimo visto solo in periodi post-bolla: 5 IPO di startup da investimenti di venture (ed ancora meno nel buyout visto che sono state solamente 3). È un problema grosso, che forse in qualche modo potrà essere attenuato dal crowdfunding nei prossimi anni.

Infine una notizia interessante, in realtà conosciuta agli addetti, è quella dell’importanza del settore pubblico per il venture capital e in generale il capitale di rischio. I Governi tramite le proprie agenzie sono i principali investitori nel venture capital: hanno apportato il 40% delle risorse a disposizione per le startup nel 2012 (erano il 33% nel 2011). È quindi il Governo Italiano il principale interlocutore che deve attivarsi se vogliamo sviluppare le startup nel nostro paese.

È interessante osservare lo spaccato geografico delle fonti di finanziamento per le startup:

– Francia 34,5%, che peraltro ha tra le sue strategie la leadership europea

– Scandinavia 17,5%, che ha sviluppato bene con norme ad hoc il settore

– Germania 10,7%, grazie ad un ecosistema potente con forti ramificazioni globali

– UK 10,1%, fortemente collegata agli US ed una capitale (Londra) della finanza

L’Italia è nel calderone degli ‘other Western Europe’.

D’altra parte i dati AIFI confermano che il settore del venture capital è ancora minuscolo, soprattutto in considerazione del fatto che siamo una delle 5 grandi nazioni dell’Europa continentale. Dai dati del report di Price Waterhouse Cooper del 2012 risultavano 136 investimenti di venture capital per complessivi 135 milioni di euro. Sono valori in aumento rispetto ai 106 investimenti dell’anno prima, ma occorre anche considerare che il 2012 è stato l’anno di massima operatività dei tre fondi governativi ‘HT’ (Principia, Atlante Ventures e Vertis) che hanno completato il loro periodo di investimento nel primo semestre di quest’anno. La conseguenza è che il 2013 sarà un anno molto duro per le startup, che dovranno fare fundraising se le cose non cambiano. E comunque stiamo parlando di 100 milioni su un mercato di 3,2 miliardi: peanuts.

Quest’estate Cassa Depositi e Prestiti (100% del ministero del Tesoro) ha annunciato la disponibilità di 6 miliardi di euro per investimenti in capitale di rischio. Inoltre abbiamo in Italia 89 fondazioni bancarie, 21 enti previdenziali, 547 fondi pensione, 239 compagnie assicurative. Le risorse per rimetterci in linea almeno con i nostri competitor Europei ci sono, ma serve dedicare risorse e più attenzione al settore del venture, perché senza capitali specializzati le startup Italiane non riusciranno ad andare da nessuna parte. Specie in un contesto competitivo e globale come questo.

È il momento giusto per farlo, ora o mai più: la quantità e qualità di startup che vediamo sul campo è in forte crescita e si è creata un minimo di speranza e delle aspettative. L’altra faccia della crisi è questa grande opportunità per l’Italia: milioni di giovani di talento sono oggi largamente sottoccupati e viste le scarse prospettive stanno scegliendo di fare gli imprenditori. È la generazione meglio istruita di tutta la storia della Repubblica e, in questi ultimi cinque anni, ha cominciato a conoscere, praticare e diffondere la startup culture. Solo questa generazione è in grado di immaginare, costruire e sviluppare le aziende che possono prosperare sui mercati importanti dei prossimi 30-40 anni.

Ma occorre finanziarle o anche questo sarà l’ennesimo treno perso della nostra nazione.

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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