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Vi raccontiamo perché a Bologna dedichiamo un festival a quelli che cambiano il mondo

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Li avevamo chiamati Pionieri ma da subito avevamo capito che non si muovono da soli ma in comunità aperte e collaborative. Perché non scrivono manifesti e non aspettano riforme, perché prediligono mettere in campo soluzioni concrete e si attivano proponendo, anziché protestando, soluzioni pratiche e scalabili.

Era il 2013 quando con “a caccia di Pionieri” volevamo capire chi lavora, con storie e prospettive diverse, al cambiamento del paese. Come farlo se non andando a scovare chi è nelle frontiere?

Trovare chi spinge le organizzazioni e le comunità al cambiamento significa andare ad incontrare i tanti che non vengono raccontati dai media.

Perché il Paese è fermo e gli italiani sono soli, dicono i titoli dei media classici o le ricerche sullo stato di salute del paese.

D’altra parte, son anche le comunità dei pionieri che sfuggono dalle generalizzazione tipiche dei giornali nostrani perché alle vecchie categorie prediligono modalità e linguaggi nuovi e ibridi. Sono ancorate a valori precisi e non a rendite perché i loro mantra sono trasparenza e competenza. Usano strumenti collaborativi con apertura e responsabilità e, ancora troppo spesso, trattate come nicchie interpretano il cambiamento come una sfida etica e assomigliano più a startup che ad istituzioni o associazioni. Spesso anche per questo non vengono riconosciute sia perché si muovono a cavallo tra profit e non profit, pubblico e privato, individuale e collettivo, ma anche perché si scontrano con norme che troppo spesso si muovono con lentezza e pesantezza.Le comunità del cambiamento invece sono veloci, flessibili, leggere e non hanno rappresentanza anche se cercano di interfacciarsi con le istituzioni: le spingono, le cercano perché partecipano e si attivano.

Questo era il quadro e ci era chiaro che non potevamo fermarci allo storytelling: raccontare il cambiamento che è già in atto era stata la prima mossa. Che fare per dare più peso ai tanti pionieri che spingono in avanti la frontiera del cambiamento? Come mettere a sistema le comunità? Come creare ponti tra chi è impegnato ad aprire e riutilizzare i dati della PA con chi cerca di ibridare manifattura con le nuove tecnologie? Tra chi sperimenta monete comunitarie e chi vive nuovi modelli di lavoro? Come porre come strategico l’approccio all’openess, alla trasparenza e collaborazione, come leva di cambiamento del paese?

La risposta fu un Festival senza spettatori, in cui tutti erano protagonisti.

Forse l’abbiamo presa un pò lunga ma volevamo darci uno spazio e del tempo per riunire tutti i pionieri.

Siamo consapevoli che siamo di fronte ad una operazione culturale di medio periodo e volevamo mettere tutti i pionieri in un grande palco dove tra pitch e tavoli collaborativi, avevamo l’obiettivo di lavorare per aumentare la massa critica, per far si che tutte comunità si conoscessero.

Non volevamo altro che incontrarli e farli incontrare, perché chi lavora al cambiamento non deve sentirsi solo. Questa fu la premessa del primo festival delle comunità del cambiamento che fu un vero successo: 480 persone, 150 comunità tra reti e nodi. Tra connessioni e sguardi d’intesa per una idea di paese diversa.Perché sono tanti e quando si incontrano, il rumore dell’innovazione si sente.

Ed ora? Dopo averle fatte riunire, come rilanciare? Come far si che ciò che è stato innescato nel 2014 trovi ancora modo di uscire dai coworking e dai fablab, dagli hackthon e dagli incubatori per trovare la luce dei riflettori? Così nasce la seconda edizione del festival delle comunità del cambiamento.

Se stiamo parlando di frontiere del cambiamento dobbiamo aumentare la velocità, questo è il punto.

Il processo innescato nel 2011, e passato attraverso una prima fase di riconoscimento durante la prima edizione, quest’anno infatti vivrà il Festival del 13 e 14 giugno come un esercizio di consapevolezza.

Vogliamo, da un lato, continuare a far emergere esperienze di successo e buone pratiche, dall’altro, sviluppare una riflessione profonda sulle direzioni del cambiamento e sulla costruzione di domanda di senso. Accanto a questo obiettivo, non trascureremo il nostro mestiere di tessitori di reti: oggi più che mai abbiamo necessità di costruire e potenziare «coalizioni di attori», dando seguito a quanto già accaduto spontaneamente a valle del Festival 2014.

Abbiamo bisogno di aspirazioni alte e di buone ispirazioni.È indispensabile, dunque, consentire alle Comunità del Cambiamento di alzare la voce, lo possiamo fare solo accrescendo il livello e la qualità del loro contributo. Inspirare connettere e formare per aumentare l’impatto delle azioni in campo: questo faremo e questa è l’alta aspirazione che ci guida.

Con un dialogo tra Riccardo Luna e Maurizio Landini dedicato a come capire organizzare il consenso, assieme a change.org che guiderà una sessione formativa su come aumentare l’impatto dell’attivismo on line, con Uber e Legacoop a parlare di collaborazione e fiducia, con panel dedicato alla micromanifattura e uno sui modelli di business degli incubatori. Poi un laboratorio sugli spazi di riutilizzare e un worskhop sui nuovi modelli di occupabilità. Un worskhop con designer e professionisti per supportare Libera, le associazioni di categoria e per portare le istanza della sharing economy al Parlamento Europeo. Un panel su legalità e innovazione visti dal Sud Italia, uno su agricoltura e poi civictech, dati e soluzioni open source nel welfare. Faremo pranzi e dj set per prenderci il nostro spazio di networking con servizi dedicati a chi ha bambini e ragazzi, con laboratori di robotica e coderdojo o per costruire aquiloni.

Questi sono solo alcuni pezzi di un festival, il Festival delle Comunità del Cambiamento, che in due giorni, con 6 sale in contemporanea, cercherà di dire che non siamo fermi. Siamo convinti nel dire che non siamo nicchie ma il laboratorio di ricerca e sviluppo del paese. Ci vediamo sabato a Bologna?

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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