Vi racconto cos’è successo alla Scratch Conference di Amsterdam

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Era un anno fa quando ho partecipato a Boston alla mia prima Scratch Conference. Il viaggio era stato organizzato in fretta e furia tra tanti impegni, in hangout tra Roma e Bologna con un altro champion del CoderDojo, senza nessun tipo di finanziamento o sponsorizzazione ma con l’unica risorsa possibile: un’enorme motivazione.

Infatti, al di là della nostra passione per Scratch, la realtà era che morivamo dalla voglia di andare a vedere di persona il MIT, l’Istituto di Tecnologia più famoso del mondo, e soprattutto il suo Media Lab.

In barba al jet lag, appena arrivati siamo andati di corsa a vedere il tempio.

Può sembrare esagerato definirlo così, ma sapere che un Istituto simile sforni quotidianamente ricerche importanti e studiosi eccellenti, ci metteva una certa curiosità se non quasi un timore reverenziale.

Timore che ovviamente è svanito in un istante, grazie alla prerogativa più invidiabile degli statunitensi: l’assoluta mancanza di formalità.

Siamo entrati nel palazzo di Amherst Street 75 come fossimo di casa e abbiamo fatto un giretto curiosando qua e là (con discrezione).L’ascensore di vetro del Media Lab lascia vedere cosa accade ad ogni piano; anche le pareti dei laboratori e delle officine sperimentali sono di vetro.Ecco, questo mi ha colpito subito: quella trasparenza fisica e reale che doveva necessariamente essere anche metaforica. Una spontanea trasparenza di intenti, di scopi, la condivisione di percorsi e strade che lì prendono corpo ogni giorno.

Al quinto piano abbiamo incontrato l’enorme gatto Scratch arancione, fatto di mattoncini Lego, che fa da guardiano all’entrata del Lifelong Kindergarten.

Un nome – decisamente programmatico – per definire lo spirito con cui lavora il gruppo di sviluppo e ricerca educativa coordinato da Mitch Resnick.

Il Media Lab è un laboratorio avanzatissimo, voluto da Nicholas Negroponte (famoso per l’iniziativa One Laptop Per Child ma di cui vi consiglio di seguire un bellissimo TEDtalk che ne riassume bene lo spirito visionario) e oggi guidato da Joy Ito, si occupa di ricerca nelle discipline riassunte dall’acronimo STEAM, Science-Technology-Engineering-Art/Design-Math.

Già dall’inaugurazione si respirava l’aria di qualcosa di speciale: a fine serata avevo conosciuto molte persone di varie nazionalità: un irlandese, una francese, una brasiliana, un austriaco, una scozzese… Avevo anche incontrato alcuni italiani che già conoscevo e altri che non avevo mai visto prima ma che partecipano online alla community.

Nei tre giorni di conferenza mi si è aperto letteralmente un mondo: Scratch era il collante tra tante persone che erano lì per imparare.

Ai detrattori di Scratch, che si fermano alla superficie e sono troppo nerd per vedere aspetti (per me fondamentali) quando si impara a programmare, quelli che lo snobbano perché gira solo su Flash, vorrei dire che (fermo restando che il MIT sta sviluppando la soluzione) in ogni caso la forza di questo linguaggio risiede nella sua accessibilità e semplicità d’uso. Perché, come dice Mitch Resnick, non si impara a programmare ma si programma per imparare. E questo deve essere alla portata di tutti.

Dare spazio alla creatività, mettersi alla prova, non aver paura di sbagliare e imparare a gestire l’errore, guardare, leggere, provare, ascoltare, condividere: il senso della comunità creativa di Scratch, e di tutte quelle che le ruotano intorno, è questo. Ne ho avuto la dimostrazione a Boston un anno fa, la conferma quest’anno ad Amsterdam.Ad Amsterdam protagoniste sono state le Creative Communities, quelle cresciute con e intorno a Scratch: dagli stessi studiosi del MIT e di Harvard a quelli delle Università che a vario titolo collaborano con loro, agli studenti e alle studentesse, ai semplici appassionati, ai maker e agli sviluppatori delle estensioni, agli educatori e agli insegnanti, ai mentor dei CoderDojo o delle scuole di coding. A tutto quel mondo, insomma, che ogni giorno gravita su un sito nel quale sono già stati caricati e condivisi oltre 6 milioni di progetti.

A gennaio l’infaticabile Joek van Montfort, alias xota, uno dei più attivi divulgatori di tecnologia e molto presente anche su ScratchEd, la community degli educatori curata dalla Graduate School of Education dell’Università di Harvard, mi ha invitato a far parte del team organizzatore della Conferenza di Amsterdam.

Per me era l’occasione di partecipare ad un’esperienza unica insieme ad un bel gruppo e ho quindi accettato. Il lavoro da fare era enorme, ma ci siamo anche divertiti: le nostre riunioni si sono svolte ora in una città ora nell’altra, poiché provenivamo da varie parti d’Europa. Al team si sono aggiunti anche alcuni “pezzi forti” come lo stesso Mitch Resnick, ma vi lascio immaginare la mia espressione quando mi sono trovata davanti, in hangout, la leggenda Alan Kay.

Il gruppo olandese ha curato in maniera impeccabile la logistica; devo dire che il tocco di classe della creatività e del design olandese si è manifestato in tante occasioni, dalla cucina fusion con birra ghiacciata servite alla Waag durante i teachmeet, agli splendidi capolavori di design thinking del gruppo olandese di facilitatori grafici Getekend Verslag.

All’inizio ho detto che ho partecipato alla conferenza. In effetti le conferenze di Scratch non si seguono, nel senso più classico della parola: si respira da subito un’atmosfera di condivisione e spontaneo affiatamento in cui si viene continuamente coinvolti dagli altri a provare, a mettere mano, sperimentare, ascoltare e prendere la parola.

Ogni momento, ogni spazio, è un’occasione per imparare e confrontarsi con gli altri. Nessuno ha paura di sbagliare, perfino chi viene dai paesi più sperduti del mondo e si barcamena in un inglese faticoso, perfino chi non è un programmatore o un ricercatore o un educatore di professione. Chiunque è disponibile ad ascoltare, chiunque è pronto a scambiare due chiacchiere con te, perfino ad aiutarti.

Non ci sono gerarchie né status accademici a segnare la distanza tra le persone.

La Conferenza è durata tre giorni, preceduti da due giornate di Masterclass: una sui Beetleblocks, basati su Scratch e Snap! per modellare in 3D progetti stampabili, condotta da Eric Rosenbaum (uno dei creatori della Makey Makey); l’altra a cura di Andrea Mayr su Turtlestich, un modo molto creativo per ricamare a macchina il codice direttamente sui tessuti. La festa di apertura si è svolta nel teatro della Openbare Bibliotheek, la bellissima biblioteca pubblica che ha anche ospitato i laboratori per bambini. Le prime due giornate della Conferenza si sono svolte al Science Park, il polo scientifico-tecnologico dell’Università (il più grande d’Europa), e l’ultima alla Zuiderkerk, una chiesa sconsacrata adibita a spazio di promozione culturale.

In questi tre giorni ho visto costruire circuiti buffi, buffissimi con i LittleBits e un autentico gruppo di nerd giocare a stressare estensioni come Snap!, stampare al Waag un frattale mascherato da innocente alberello programmato in 3D con Beetleblocks, usare la macchina da cucire per tradurre codice su una t-shirt con Turtlestich, comandare il movimento di un oggetto con il pensiero, scollegare fisicamente Arduino dai suoi cavi, costruire un PC di cartoncino e ascoltare dall’autrice la fantastica storia di Hello Ruby, strappare un libro per capitoli perché l’autore non aveva copie a sufficienza per tutti!

Ho ascoltato con attenzione alcuni membri del CAS inglese (Computing at School, il curriculum scolastico UK di educazione tecnologica), la storia della nascita del linguaggio di programmazione LOGO direttamente dalla voce di Cynthia Solomon, che con Seymour Papert lo ha sviluppato e sperimentato proprio al Media Lab negli anni ‘60.

La vera scoperta per me è stata la Waag Society, che ospita il FabLab di Amsterdam. Sapevo delle attività dei ragazzi del FabLab, ma non avevo idea che avessero la loro sede lì: una specie di castello, in realtà l’antica pesa e sede delle corporazioni cittadine, che sorge al centro del centro della città, in pieno Nieuwmarkt. L’associazione, oltre che essere uno degli sponsor della Conferenza, ha ospitato tutti i cosiddetti momenti unconference, quelli in cui, complice la massima informalità e la scusa dell’aperitivo, si poteva tornare a seguire ciò che si era perso durante la giornata. Delle vere e proprie repliche, ancora meno formali, che hanno dato vita ai teachmeet all’interno del Teatro anatomico, la splendida sala al secondo piano dalla volta ottagonale affrescata con i simboli delle corporazioni e che ha fatto da sfondo alla famosissima Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt.

Era la prima volta che sentivo parlare di tecnologia, programmazione, educazione seduta a terra in cerchio e in un posto così suggestivo.

Il sito della Conferenza sta via via raccogliendo il materiale video e la documentazione degli interventi, dai keynote agli ignite talk. L’avventura di Amsterdam si è conclusa il 15 agosto 2015 ma io continuo a cercare in rete i tweet e i blogpost di chi ha partecipato, perché ognuno di loro racconta un diverso punto di vista.

Resta il sapore di qualcosa di unico che accomuna tutti e un’esperienza a cui ho avuto la fortuna di prendere parte.In questi giorni il mio compagno di viaggio di un anno fa al MIT inizia il suo dottorato di ricerca al Lifelong Kindergarten dopo aver insegnato a centinaia di bambini la gioia di programmare con Scratch; io proseguo in Italia e un po’ a spasso per il mondo tra scuola, CoderDojo e tanto altro, con la certezza che ci sia ancora tantissimo da fare, conoscere, vedere e imparare.

Non so se tornerò a Boston il prossimo anno per seguire la Scratch Conference, già annunciata da Resnick in chiusura ad Amsterdam. Da due anni a questa parte ho imparato a pensare e ad affrontare giorno per giorno le cose che mi capitano e quelle che accadono, e in questo periodo nella mia vita ne sono cambiate parecchie.

Adesso so per certo che ogni “sbirciatina” in giro mi insegna qualcosa.Ero e sono prima di tutto una gran curiosa. In fondo, ho imparato da un gatto arancione! ?

AGNESE ADDONE

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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