Vi scrivo dalla Nave della Legalità per dirvi: le idee restano

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Non so se aver speso gran parte della mia adolescenza ad impicciarmi di cose assolutamente estranee ai miei coetanei sia stato un bene o un male, ma io mi sentivo bene così.

Col mio pc e con il Web io ero ovunque succedesse qualcosa di nuovo. E siccome ero un ficcanaso facevo sempre di tutto perché di quel qualcosa di nuovo io fossi parte attiva anche nella vita reale, anche perché credevo – e credo ancora oggi – molto poco agli “eroi da tastiera”.

Ricordo in particolare gli anni del liceo, quando invitammo ad un’assemblea l’inviato di un noto quotidiano nazionale. Volevamo sapere qualcosa in più delle mafie, ed in particolare – visto che il cronista era calabrese – di quella più ignota ed innominabile, che stava ad uno sputo da noi: la ‘ndrangheta.

Ci raccontò molte cose, anche utili, ma per lo più riconducibili all’aneddotica e al folklore più che alla cronaca. E comunque, purtroppo le sue più che ricostruzioni storiche sembravano archeologiche. Niente di più di quello che si diceva in giro.

Invece sapeva (o meglio, dava l’idea di voler parlare) molto di più dei fatti riguardanti la Sicilia. D’altra parte, era lì che aveva scelto di trasferirsi. A Palermo. Perché negli anni ’80 stare lì per un cronista di nera era d’obbligo. Anni bui, certo. Ma erano anche gli anni in cui iniziava ad intravedersi una luce in fondo a quel tunnel impastato di soldi, sangue e omertà. Gli anni d’oro del cosiddetto “pool antimafia”.

Un “pool”. E’ al liceo, proprio grazie a quel cronista, che imparai ad associare per la prima volta un altro significato a quella parola che per me – abituato fin da piccolo ad usare pc e consolle che parlavano solo inglese – altro non voleva dire se non qualcosa che avesse a che fare con il gioco del biliardo.

Quel pool frutto dell’intuizione del giudice istruttore Rocco Chinnici, e poi di Antonino Caponnetto, nonno Nino: mettere a lavorare assieme, come una pigna, i migliori magistrati inquirenti. Così da lavorare meglio e, soprattutto, far vedere ai “cattivi” – a quei boss che romanzi e film raccontavano come ignoranti con la coppola e la lupara, ma che purtroppo erano diventati ben altro – che sarebbe stato difficile torcergli un solo capello, perché loro, quei magistrati dei quali Falcone e Borsellino erano divenuti inconsapevolmente un simbolo, erano ormai una “squadra”.

Quella squadra che riuscirà a portare alla sbarra di lì a poco qualcosa come 475 imputati. Tutti in un solo, enorme, processo: il “maxi-processo”, appunto.

Devo essere sincero: se poco o nulla avevo apprezzato delle cose dette da quel cronista in merito ai fatti calabresi, non posso dire lo stesso del versante siciliano.

Anzi, tutt’altro! Qui era tale la passione che lo attraversava mentre proseguiva ed ampliava i suoi racconti, che sembrava di essere al cinema tant’era minuzioso e documentato il suo eloquio. Certo – pensai tra me e me – se magari questo giornalista avesse avuto la possibilità di lavorare qui in Calabria, non saremmo certo in queste condizioni. Perché, come diceva Corrado Alvaro, “il calabrese vuole essere parlato“. E se si fosse iniziato a mettere il naso anche dei fatti di casa nostra, oltre che di Cosa nostra, forse ci saremmo risparmiati terapie d’urto in futuro.

E fu proprio in quegli anni del liceo che maturai una consapevolezza: qualunque direzione avesse preso la mia vita, da grande non sarei potuto diventare altro che un magistrato o un giornalista. Osservare, approfondire, spiegare. Erano e sono secondo me tre verbi comuni ad entrambe le professioni. Osservare un fenomeno, approfondirne le cause e poi restituirlo all’opinione pubblica, perché possa formarsi e consolidarsi nel tempo quel consenso sociale necessario a far capire alla gente da che parte stare.

Nonostante tutte le buone intenzioni, però, sono stato uno dei tanti giovani che in un primo momento si sarebbe arreso. Dopo la maturità, la scelta dell’università più che un’opportunità diventò un alibi. Un alibi per andarmene, per uscire da quella vita “incellophanata” dove tutto e tutti sanno tutto e nessuno dice niente. Dove pure le pietre ti schifano se le calpesti.

Decisi di andare a Roma, alla Sapienza. Se non che, dentro quelle mura sentivo parlare più calabrese che romano, e allora iniziai a convincermi che il problema eravamo proprio noi, gli egoisti, quelli che se ne erano andati, perché magari saremmo riusciti anche ad affermarci nella vita, ma giù avremmo lasciato la nostra terra in mano ai peggiori (o ai meno peggio, nel migliore dei casi), che comunque sarebbero diventati classe dirigente.

Romperò presto con quella scelta vile ed egoista, e vi sono una data, un luogo ed un giorno ben precisi: 16 ottobre 2005. È sera, ed io mi trovavo giù in Calabria, quando apprendevo della barbara uccisione del Vicepresidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno. Franco era una brava persona, umile, e per questo quel delitto mi aveva lasciato prima interdetto, poi ancora più consapevole: questi – gli ‘ndranghetisti – non scherzano, qui o si fa sul serio, o è finita davvero.

In tasca avevo il biglietto di un treno, il mio rientro a Roma. Treno delle 9:42 del 17 ottobre 2005. Deciderò senza pensarci su neanche un attimo di non partire. E adesso ammazzateci tutti“. Ero incazzatissimo quando l’ho scritto su un lenzuolo bianco con le prime vernici a spray che ero riuscito a rimediare. Avevo chiamato qualche amico, amici miei e di mio fratello Alessandro, ed insieme eravamo andati ad esporlo a Locri ai funerali di Franco Fortugno. Il resto è storia.

A volte penso a cosa sarebbe stata oggi la mia vita se quella sera del 23 maggio del 1992 non avessi acceso la tv. E poi ancora se avessi preso quel treno del 17 ottobre 2005. Poi allungo lo sguardo a qualche metro dal monitor, mentre scrivo queste ultime righe sul tavolino del bar della “Nave della Legalità” diretto a Palermo, con le onde che purtroppo e per fortuna mi hanno tenuto sveglio tutta la notte. E quest’alba che mi sto regalando già sola vale il prezzo di quella scelta.

Palermo, 23 maggio 2012ALDO PECORA

Originariamente pubblicato su chefuturo.it

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