Potendolo spostare a fine espressione, l’hashtag varrebbe come l’arma contundente di un punto di domanda. Il sud siamo noi? Cos’è il sud, allora! Dov’è? Dove comincia, dove termina? Quante parlate lo narrano e quali paesaggi lo immortalano?Il Sud è spesso descritto come un’appendice infiammata, patologia di logiche in antitesi, divari economici, paradossi infrastrutturali, controlli criminali, irresponsabilità politiche, emergenze permanenti. Di esso si enumerano però le inestimabili risorse, eredità materiali e immateriali accumulate grazie civiltà eterogenee, succedutesi con straordinaria continuità temporale.
Le nostre bellezze annualmente vengono conteggiate. Sappiamo di avere il 48% dei siti culturali del patrimonio nazionale. Sappiamo di detenere 30% dei 49 siti Unesco italiani. Il Ministero dell’Ambiente ci dice che su 24 parchi nazionali, 14 si trovano nel Sud del Paese; al Sud si trova il 72,1% dell’intera superficie dei parchi nazionali italiani.Dati come questi, però, compilano un elenco che non dice assolutamente nulla della capacità di mettere a frutto o a sistema la ricchezza descritta, che non misura il grado di appartenenza e identificazione tra l’uomo e il suo ambiente storico, artistico e naturale, grado che non è dato dal livello di fruizione o di fruibilità turistica del patrimonio esaminato.
Dove comincia e dove termina il Sud come mondo culturale, paesaggistico, antropologico?
È difficile dirlo, perché il Sud è geograficamente un luogo, ma sentimentalmente un immaginario.Conosce il Sud chi lavora nel Sud e sa che il Mezzogiorno d’Italia non è terra di disagi e di conflitti. È propriamente terra di bisogni. Quanto più siamo animati dal desiderio di colmare le nostre indigenze, tanto più diventiamo fertile, perché capaci di compiere desideri, di concepire l’ambiente come materia con cui costruire, ma anche come qualcosa di interiore per il quale ha senso costruire.
Attraverso l’innovazione sociale il Sud Italia reagisce sperimentando iniziative che ritessono il senso di appartenenza non più alla luce del disagio. Quella del disagio è una prospettiva scivolosa. Come sostiene Cassano, è una necessità della cultura dominante che la cultura del dominato riproduca simbolicamente la propria soggezione.
Non dobbiamo dimenticare, quindi, che raffigurare il Sud come terra divisa tra due estremi – paradiso naturale e inferno mafioso – o come terra minore concorre a confermare tale gerarchia, nociva anche quando è paternalistica e relativamente fondata. Piuttosto dovremmo testare come il luogo comune sul Sud possa diventare un luogo della storia meridionale.
Ci pare che questo faccia l’esperienza di Addiopizzo Travel, progetto che evolve naturalmente da precedenti attività di contrasto alla criminalità, ma che di fatto maneggia il luogo comune “Sicilia terra di mafia” come strumento di bonifica delle attività turistiche nell’isola. Al turismo “esotico”, che subisce il fascino di ciò che in fondo deplora (visito società primitive e degradate per confrontarmi con un immaginario pilotato, dunque protetto, ma suggestivo), Addiopizzo Travel oppone un concetto di viaggio che coinvolge il turista nel percorso di epurazione dalla criminalità, investendolo di responsabilità verso il territorio che non sta più semplicemente visitando, bensì sta conoscendo.Esperienze di social innovation come queste lasciano un messaggio fondamentale.
Il “Sud – paese minore” ha senso secondo i parametri consumistici dello sviluppo. In verità, gli uomini meridionali, abituati da secoli alla precarietà contingente, dispongono di svariate forme protettive di ordine, che non sono solo di credenza popolare, di religione o di codice mafioso. Sono anche di immaginazione, qualità appresa, derivata e trasferibile.
La visione del futuro, come abilità a progettarlo, è profezia.
La profezia è un’arma protettiva che ha consentito al Sud di non subire la storia, dandogli facoltà di reinventare: la fede magica crea una saldatura positiva tra storia e metastoria, un rapporto che relativizza quanto della società e della storia minaccia l’uomo, dando a questi la possibilità di non perdersi e di «continuare a fare storia», così come scrive Umberto Galimberti nell’introduzione di “Sud e magia” di Ernesto De Martino.Sebbene la superstizione sia in via di estinzione e riguardi un tipo di folklore che non connota più la cultura meridionale, alcuni aspetti di essa possono servire adesso a raccontare forme mentali a priori che le esperienze innovative ri-attuano.
Prendiamo il tradizionale gioco del lotto, o più correttamente il rituale gioco del lotto.Si giocano i numeri non solo per vincere denaro. Ad un livello più profondo, il gioco del lotto rappresenta la prova che la realtà ha un significato, che essa e i sogni sono correlati, che l’imprevisto, l’incidente, il disordine hanno ragioni che si corrispondono. Al verificarsi dei numeri coincide un dialogo autentico con l’oltre. C’è un controllo sul possibile. Il beneficio economico è una conseguenza, ma ciò che la cultura popolare cerca nel rituale del gioco è l’elaborazione del caos, dell’imprevisto e del dolore, nella conferma di un senso che il divino esemplifica nella miracolosa uscita dei numeri giocati.
Il gioco del lotto è una di quelle rappresentazioni esotiche che confermano la sudditanza civile del Sud? Non interessa capirlo adesso. Ciò che è interessa è usare quello spirito comunicativo che fa convergere le regioni dell’esperienza, che trasporta la capacità di scoprire relazioni e significati nelle necessità della creatività e della cultura.
Le credenze popolari creavano una storia condivisa e un intreccio di relazioni tra i cittadini e i luoghi che abitavano.
La nostra mentalità profetica non deve assecondare superstizioni, tuttavia può ancora profetizzare.Badiamo bene: nulla a che vedere con la tecnica empirica e logica di fare previsioni. L’uomo profetico non elabora statistiche o probabilità, ha un ruolo attivo nei confronti del futuro: il futuro non è l’eventualità più probabile e non è il destino, non è qualcosa che avverrà in ogni caso a dispetto di qualunque capacità di presentirlo. La profezia evoca, tira fuori dal futuro gli avvenimenti che auspica, consentendo ad essi di adempiersi. La profezia determina e vuole ciò che annuncia.
Se chiamiamo “buon senso” e “saggezza” il contentarsi del disponibile, se chiamiamo “progettualità” e “capacità di fare” l’arte di arrangiarsi, ci accorgiamo che scegliere le parole per raccontarci non serve solo a creare miti strumentali, ma davvero ci proietta su un campo di azione piuttosto che un altro. Pertanto dobbiamo abbandonare gli stereotipi, inaugurare, dunque, tradizioni culturali che richiedono la coesistenza, che richiedono fiducia, che promuovono la perseveranza: noi siamo il Sud? #noisiamoginestre! Il fiore che attecchisce nei suoli più aridi, il fiore solidale, che resiste.
L’innovazione sociale non è un’utopia, proviene da una mentalità profetica che evoca e, dunque, rende possibili e replicabili le proprie visioni. La nostra profezia legge con mezzi di comunicazione potenti e interroga risorse senza tempo: fantasia, immaginazione, bellezza.L’innovazione sociale ci ha dimostrato che il vecchio contadino, ancora dentro di noi, si evolve verso l’esperienza condivisa. Siamo ginestre. Non conserviamo un passato statico, abitiamo il cambiamento secondo logiche a misura d’uomo, ereditiamo la saggezza dell’anziano, inaugurando lo spirito dell’infanzia. Il vecchio-bambino indica vie, edifica città secondo usi non stereotipati, in cui la strada torni ad avere le funzioni educative.
Il Sud ancora non c’è, perché non esiste una sola volta per tutte.
È per questo che tutte le magie in cui abbiamo creduto possono dissolversi senza paura, se siamo capaci a recuperarne lo spirito dentro nuove forme. Nuove forme di aggregazione e di sperimentazione culturale.
«Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro e tutte le loro azioni sono tentativi e prove, perché ogni azione può essere superata dalla successiva».