Nel 2015 Uber, la compagnia di taxi più popolare al mondo, non possiede nemmeno un veicolo, Facebook, il media più popolare, non crea nemmeno un contenuto, Alibaba, il negozio più profittevole, non ha nemmeno un inventario e Airbnb, l’albergatore più noto, non possiede nemmeno una stanza.
Questi concetti, che poche settimane fa giravano su tutti i social in una slide, devono, e molto, far riflettere. Ed essere interpretati in maniera costruttiva.
Dove sta il valore?Qualcuno parla di sharing economy, altri davanti a questi esempi dissentono e spiegano che l’economia della condivisione è molto diversa da un sistema in cui una sola piattaforma guadagna milioni di dollari senza fare sostanzialmente “nulla”.
Già, perché gli appartamenti che affittiamo su Airbnb sono nostri, non del sito web che però grazie a noi incassa parecchio.
Male? No di certo, bravi loro ad aver promosso una piattaforma, che di fatto esisteva già prima con altri nomi, facendola diventare un must have per milioni di persone in tutto il mondo.
Credits: dollarsandsense.org
È la forza del marketing, la capacità di creare love brand anche attraverso lo scontro tra categorie, come fa Uber, il pensare prima a generare una community enorme e poi capire solo successivamente come guadagnarci, come nel caso di Facebook.
Internet ha creato una ricchezza enorme per pochi e costruito in maniera esemplare una nuova economia che, di fatto, si è mangiata via pezzi di vecchie economie, concentrando il valore in pochi nuovi centri di potere.
“Invece di creare maggior ricchezza diffusa, il capitalismo distribuito della nuova economia interconnessa ci sta impoverendo.
Lungi, per esempio, dal creare nuovi posti di lavoro, è questa disgregazione digitale la principale causa della crisi strutturale dell’occupazione” sostiene Andrew Keen, guru della rete, nel suo ultimo libro Internet non è la risposta, pubblicato in Italia da Egea: “Il punto è rinunciare, con fatti alla mano, alla fascinazione degli evangelisti di Internet e ripartire dalle evidenze che dicono che Internet non è la risposta giusta. Almeno non ancora. Almeno fino a quando non avremo affrontato la sfida di dare una forma corretta ai nostri strumenti in rete prima che siano loro a plasmarci”.
La teoria di Keen è un forte attacco alla rete, la stessa che però ha democratizzato l’accesso alle informazioni e democratizzerà, a detta di molti, la produzione.
Dove sta la verità?A mio avviso, semplicemente laddove sta il valore.
Se il valore è diffuso, Internet davvero scardina una vecchia economa oligarchica a favore di una democratizzazione dell’accesso alla ricchezza. Se Internet invece semplicemente sposta la ricchezza da taluni a talaltri, allora non è nulla di nuovo, ma semplicemente una replica 2.0 del vecchio sistema economico che ha creato enormi divergenze sociali.
Credo, però, che siamo ancora a metà del guado: Internet ha spostato la ricchezza verso nuovi potenti, ma ha anche dato a molti più possibilità.
Ecco, allora oggi sta a noi: usare Internet per creare un mondo migliore, inclusivo, che premi l’intraprendenza ma che tenga conto anche dei più deboli.
Questo ragionamento mi interessa molto se proviamo ad applicarlo al nostro Paese, che oggi più che mai ha bisogno di ricostruire un sistema socio-economico diverso da quello che si è prima affermato e poi disgregato tra gli anni 60/70 e l’inizio di questo millennio, lasciandoci oggi in una situazione di immobilismo che ci fa sperare che lo 0,7% di crescita del PIL sia davvero realtà.
Zero virgola sette.
Possiamo puntare a qualcosa di diverso, in termini numerici e di affermazione umana?Dobbiamo. E secondo me possiamo farlo attraverso Internet, mettendo il digital al centro dello sviluppo, perché la rete in Italia è l’unica via democratica di accesso al successo.
In un Paese di scandali e corruzione, di spintarelle e im-meritocrazia, Internet è la possibilità.
Dove sta il valore?Dove decideremo di metterlo noi, costruendo reti di collaborazione e condivisione capaci di premiare chi meglio fa ma di tenere a bordo chi ha più difficoltà. Internet, lo ipotizza lo stesso Keen scrivendo che abbiamo la possibilità di dare la corretta forma agli strumenti in rete, permette questo perché, a differenza di tutti i passati motori dell’economia, consente anche a chi arriva per ultimo di provarci, di costruire valore, di tracciare la strada per un successo personale e professionale ambizioso.
Non serve la conoscenza o l’amico, l’Italia ha davanti a sé la possibilità di diventare un Paese capace di premiare la capacità e il talento.
Certo, non ce l’abbiamo solo noi questa fortuna, ma solo noi abbiamo il Made in Italy, quell’insieme di design, moda, turismo, cultura, enogastronomia e molto altro ancora che ci rende unici ancora oggi. La riflessione parte proprio da quelle piattaforme che fatturano centinaia di milioni di dollari: quanti di quei soldi possiamo portare nel nostro Paese?
Quanti appartamenti siamo in grado di affittare durante Expo, quante auto muoveremo con Uber, quanti prodotti originali made in Italy venderemo su Alibaba? Sta a noi, singoli e insieme, sfruttare l’enorme opportunità che Internet ci dà e che ancora troppo timidamente stiamo approcciando. Le piccole e medie imprese italiane osservano, provano a capite, attendono.
Dai, forza, avanti, questo è il momento: Internet è la risposta alla nostra necessità di affermazione, è la strada per costruire un Italian Dream capace di premiare i migliori, riattivare la nostra economia, tenere a bordo gli ultimi. È il nuovo capitalismo digitale, non quello paventato che Keen teme ma quello che in fondo si augura: non cioè quello conservatore e oligarchico, ma quello che possiamo costruire insieme, in Italia e non solo, grazie a parole d’ordine come condivisione, collaborazione, inclusione, merito e successo, laddove successo riporti in sé l’affermazione personale giustamente premiata perché raggiunta nell’altrui rispetto e inclusione.
Non è un sogno, questo Italian Dream, è una nuova strada verso una società più giusta che, grazie a Internet, possiamo davvero realizzare. Anzi, dobbiamo.