Nel 1977 probabilmente la maggior parte di voi non era ancora nata, e quindi vi sembrerà strano leggere che la notizia più hot della scienza spaziale è dovuta ad una sonda che è stata lanciata nell’agosto del 1977, lo stesso anno dell’inizio della saga di Star Wars. La sonda si chiama Voyager 1 e, dopo 36 anni di viaggio alla rispettabile velocità di 18 km/sec, è il primo manufatto umano ad avere lasciato la zona d’influenza del sole. Dire che Voyager 1 è uscita dal sistema solare è un po’ estremo, visto ci vorranno ancora 300 anni perché arrivi alla nube di Oort, il serbatoio delle nostre comete, ma tant’è. Il messaggio è questo: Voyager 1 è “fuori”, nello spazio interstellare.
La sonda, che è la missione più longeva della NASA, è figlia di una fortunata stagione della scienza spaziale, quando la NASA conquistata la Luna, si spingeva nello spazio interplanetario con missioni di assoluta eccellenza.
Sotto l’influenza visionaria di planetologi del calibro del grande Carl Sagan e di fisici come James van Allen (lo scopritore delle fasce di particelle che circondano la terra), la NASA decise di sfruttare un fortunato allineamento planetario (che si presenta una volta ogni 176 anni) per organizzare il Grand Tour del sistema solare.
Pensando in grande, La NASA costruì due sonde gemelle, Voyager 1 e 2, che partirono a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. Appena partita, Voyager 1 provò le sue camere sulla Terra e colse la prima immagine del sistema Terra-Luna (foto sopra). Nel corso dei 12 anni successivi, Voyager 1 e la sua gemella Voyager 2 hanno visitato tutti i pianeti giganti gassosi. Entrambi ci hanno mandato foto di Giove con le sue lune, di Saturno, con i suoi maestosi anelli e suoi moltissimi satelliti, la sua maxi-luna Titano.
Poi Voyager 2 è stato deviato per andare a fotografare Urano e Nettuno, mentre Voyager 1 è stato fatto continuare senza deviazioni verso l’esterno del sistema solare.
A questo punto Voyager1 non aveva più nulla da fotografare, ma, prima di spegnere le camere, Carl Sagan chiese di ruotare la sonda per prendere un’ultima immagine della Terra. Era il 1990 e l’immagine, nota come Pale blue dot (foto sotto), è diventata una icona dell’era spaziale. Da allora la sonda ha continuato il suo viaggio a 18 km/sec e, ad oggi, ha coperto 19 miliardi di km registrando dati sul numero, tipo e velocità delle particelle che la colpiscono, oltre a misurare il campo magnetico dello spazio che attraversa. Per una collezione dei momenti salienti della missione Voyager 1 consiglio la top ten compilation a questo link.
Le sonde Voyager sono autogestite da tre computer di bordo che rappresentavano l’ultimo grido dell’informatica al momento dell’approvazione della missione (nei primi anni ’70). Gestiscono 8.000 operazioni al secondo, contro i 14 miliardi di operazioni di uno smartphone, eppure hanno guidato le sonde per 36 anni, senza mai problemi. I dati vengono registrati su un nastro magnetico a 8 piste che viene usato un pezzo alla volta e viene riavvolto una volta ogni 6 mesi, per non usurarlo troppo. I dati vengono trasmessi a terra con tutta la potenza prodotta dal generatore nucleare di bordo, che nel corso degli anni si è ridotta ed ora si aggira sui 23 Watt, l’equivalente della lampadina del vostro frigorifero. Anche il bit rate è vintage. Dimenticate i mugugni per la ADSL che va lenta: i Voyager si devono accontentare di 160 bit/secondo.
È chiaro che erano stati fatti prodigi di valore per comprimere le informazioni in una velocità di trasmissione così limitata. Funziona tutto straordinariamente bene, ma se, adesso, a qualcuno viene in mente di cambiare qualcosa nel formato dei dati, per registrare qualche informazione in più, trovare un informatico che sappia mettere le mani nei codici scritti 40 anni fa è difficilissimo. Per togliersi d’impaccio, alla fine la NASA ha chiesto l’aiuto di un ingegnere in pensione che ancora si ricordava come venivano registrati i dati sul nastro magnetico e ha saputo mandare i comandi giusti per cambiare il formato senza disturbare il veterano dello spazio interplanetario.
Il segnale impiega 17 ore e 22 minuti per raggiungere la Terra. Ovviamente è debolissimo e ha bisogno di essere raccolto da grandi antenne. Il Deep Space Network della NASA dedica ogni giorno 4 ore del suo preziosissimo (e costosissimo) tempo per ascoltare i due Voyager. Normalmente viene usata l’antenna più grande, la mitica 70 m di Goldstone nel deserto di Mojave. Poi i segnali arrivano al JPL dove c’è un team di 12 persone che li analizza e poi li mette a disposizione di tutti. Tanto per dare l’ordine di grandezza, Curiosity può contare su un team di 400 persone.
Dovendo gestire la missione più longeva della NASA, tutto il team di Voyager è stagionato, a cominciare dal capo, il sempiterno Ed Stone, uno scienziato di 77 anni che da 40 si dedica ai Voyager. Le sonde lo stanno ripagando di tanta paziente attenzione. Grazie ai recenti risultati, Ed sta vivendo una seconda giovinezza. Nonostante la tecnologia vintage, il nastro magnetico obsoleto, la velocità di trasmissione ridicola, Voyager ci ha portato ai confini della bolla solare. E la storia continua: perché il segnale, seppur sempre più debole potrà essere ricevuto almeno fino al 2020 e sono certa che la NASA continuerà ad ascoltarlo.