Riccardo (Luna, il direttore di “CheFuturo”, ndr), mi rimprovera spesso – scherzosamente, lo so – di essere un innovatore entusiasta ma “pessimista”, nel senso che non mi aspetto che l’innovazione (e, in particolar modo, Internet e il digitale) possa ricevere dalla classe dirigente di questo Paese l’impulso fondamentale di cui – da anni – ha bisogno.
E allora, per commentare i primi provvedimenti del Governo Letta in materia di digitale, ho letto e riletto con attenzione i pochi articoli dedicati alla materia nell’ambito del c.d. “Decreto del fare” approvato sabato dall’Esecutivo. Ci ho provato, confesso, a vedere il bicchiere “mezzo-pieno”, a percepirlo come la dimostrazione di un cambio di passo… ma proprio non ci riesco. E provo a spiegare il perché.
L’immagine più efficace per descrivere l’azione del Governo è quella mitologica della “tela di Penelope”, la regina di Itaca che aveva subordinato la scelta del suo nuovo marito all’ultimazione di un lenzuolo ma che – pur di impedire che ciò accadesse – la notte disfaceva ciò che aveva tessuto di giorno.
Così, da oltre un decennio, si comportano i Governi di ogni colore politico che, all’inizio del mandato, smantellano quanto fatto dall’esecutivo precedente e disegnano, con norme più o meno complesse, riforme che non avranno tempo (e risorse) per realizzare.
Anche il “Decreto del fare” non si sottrae a questa regola. Nonostante roboanti annunci e comunicati stampa, a chi legga il testo del decreto non resterà che la constatazione che si tratta di un intervento assai deludente, se non addirittura dannoso.
Gli articoli che si occupano del digitale sono assai pochi e nessuno di essi è idoneo a far superare lo stallo dell’innovazione italiana né a portare frutti in tempi brevi.
Il decreto, a dispetto del nome, si occupa innanzitutto di “DIS–fare” l’organizzazione che il precedente esecutivo aveva dato alla gestione dell’Agenda Digitale.
In Italia, e già questo è indicativo, non esiste un Ministero che si occupi a tempo pieno del digitale (con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti): le competenze sono state assegnate – a seconda del Governo – a un Ministro diverso (a quello della Pubblica Amministrazione oppure a quello dell’Istruzione o, ancora, a quello dello Sviluppo Economico).
Per l’Agenda Digitale, nel 2012, fu istituita addirittura una “Cabina di Regia” composta da quattro Ministri che non ha dato buona prova di sé, in quanto questo modello crea sicuri conflitti e pericolose duplicazioni. Come se non bastasse, il “Decreto del fare” aggiunge un altro componente al tavolo della Cabina di Regia (il Presidente del Consiglio che la presiede) e istituisce altre due figure:
– un “Tavolo permanente per l’innovazione e l’agenda digitale italiana”, organismo consultivo composto da esperti in materia di innovazione tecnologica e da esponenti delle imprese private e delle Università (ma non della società civile);
– un’apposita “struttura di missione” capeggiata da un Commissario di Governo per l’attuazione dell’agenda digitale (il c.d.
“Mister Agenda Digitale” che Letta ha già individuato nella persona di Francesco Caio).
Nuove figure, quindi, nuovi assetti da trovare e nuovo, assai prevedibile, stallo.
Siamo sempre il Paese in cui il Governo-Penelope – nei vent’anni dal 1993 al 2012 – ha cambiato quattro volte nome e competenze dell’Autorità incaricata di occuparsi del digitale: da AIPA, a CNIPA, per passare a DigitPA e finire – infine – con l’Agenzia per l’Italia Digitale.
E adesso, ancor prima che l’Agenzia sia diventata operativa (ad un anno dalla sua istituzione non ha ancora uno Statuto), il Governo istituisce un Commissario che presidierà l’attuazione dell’Agenda digitale e un tavolo costituito da esperti e imprese.
Sarebbe una buona idea, forse, se il Commissario avesse poteri di coordinamento effettivo, ad esempio per l’emanazione dei provvedimenti attuativi – oltre trenta! – da cui passa l’attuazione dell’Agenda Digitale (buona parte dei quali avrebbe dovuto essere già adottata). E invece, il Commissario è una figura sfornita di alcun potere effettivo che non sia la moral suasion derivante dalla sua fama.
Fin troppo facile, per chiunque abbia un’esperienza in questo settore, prevedere che le iniziative di questo “Mister Agenda Digitale” rimarranno impantanate nel coordinamento tra i diversi uffici legislativi o in scontri istituzionali tra i diversi soggetti della Cabina di Regia.
E poi, il Commissario quale Agenda Digitale attuerà? Quali saranno le priorità? Ad esempio: qual è l’idea di amministrazione digitale del Governo? Quale quella di diritto d’autore? Le buone prassi da seguire sono gli USA dell’illuminato Open Gov obamiano o la Francia della liberticida legge HADOPI?
Nessuno lo sa, a quanto è dato di capire e visto che il Governo – a quasi due mesi dalla sua entrata in carica – sta ancora discutendo del “chi” e non del “cosa”.
Di conseguenza, le altre norme che il Decreto del fare dedica al digitale non sono granché innovative, limitandosi a modesti ritocchi ad istituti che esistevano già:
– si prova a favorire il domicilio digitale, vale a dire la possibilità per il cittadino di poter utilizzare un recapito di posta elettronica nei propri rapporti con l’amministrazione. Tuttavia, invece di consentire di utilizzare a ciascuno un proprio recapito e-mail o PEC, si prevede unicamente la facoltà di utilizzare la c.d. CEC-PAC (una “mini-PEC” che il Ministro Brunetta decise di regalare ai cittadini e che però funziona solo per inviare/ricevere messaggi con indirizzi di pubbliche amministrazioni). Si tratta, indubbiamente, di un’occasione sprecata in quanto la CEC-PAC è stato uno dei più grandi fallimenti dell’informatica pubblica: costata oltre 50 milioni di euro è stata attivata da poco più di un milione e mezzo di cittadini. Il Governo, in presenza di questi dati, avrebbe dovuto tirare le somme di questa esperienza, costruendo un sistema di comunicazioni digitali più efficace (e meno oneroso) tra PA e cittadini.
– il Governo, inoltre, prevede che – nell’ambito del programma di razionalizzazione dei Centri elaborazione dati CED delle Pubbliche Amministrazioni già previsto dal precedente Governo – vengano individuati i livelli minimi dei requisiti di sicurezza, di capacità elaborativa e di risparmio energetico. Si tratta di una previsione davvero poco utile, da un lato perché tali contenuti avrebbero potuto essere già inseriti nel piano (indipendentemente dal Decreto), dall’altro perché non incide sui tempi della razionalizzazione dei data center delle PA. Visto che da tale misura potrebbero derivare risparmi per 5,6 miliardi di euro in cinque anni, sarebbe stato lecito aspettarsi che il decreto legge servisse per accelerare quest’azione.
– non difformi sono le considerazioni da fare sulle previsioni in materia di fascicolo sanitario elettronico, una delle più importanti innovazioni in materia di sanità digitale. Anche in questo caso, l’intervento del Governo Letta si limita a qualche modesta (e marginale) modifica e alla fissazione del termine del 31 dicembre 2014 quale data entro la quale Regioni e province autonome devono istituire il fascicolo sanitario elettronico. Nonostante da anni siano in corso sperimentazioni e dal 2012 il fascicolo sia previsto normativamente, si sceglie di aspettare ancora oltre un anno, rinunciando nel breve periodo ai risparmi che potrebbero derivarne (le stime presentate dal Governo Monti parlano di 3-5 miliardi di Euro l’anno).
– la stessa “liberalizzazione” del WI-Fi – così come è stata pomposamente definita in conferenza-stampa – è un ben più modesto intervento di limitata semplificazione che ha poco a che vedere con gli obblighi di identificazione degli utenti e dovrebbe avere un limitato impatto sulla vita degli utenti.
Queste le misure tanto strombazzate nei giorni in cui al vertice dei G8 si parla di Open Data e a Dublino si tiene la “Digital Agenda Assembly”: piccoli ritocchi che non incidono immediatamente né sulla vita dei cittadini, né sulla competitività del Paese, né sul risparmio delle Amministrazioni.
Per non parlare del fatto che molte di queste disposizioni sono destinate a diventare operative dopo il 2014, quando questo Governo non ci sarà più (lo stesso Presidente Napolitano non ha fatto mistero del fatto che questo esecutivo ha una durata non superiore ai 18 mesi).
Caratteristica del Governo-Penelope, infatti, è quella di tessere un ordito normativo fatto di piccole e irrilevanti modifiche a istituti che esistono già, ma mai accelerare verso il digitale e prevedere subito misure innovative o che potrebbero portare immediatamente benefici o risparmi.
Il Governo, ad esempio, avrebbe potuto rendere più celere l’attuazione della fatturazione elettronica nei confronti della PA, caso esemplare di innovazione “all’italiana”: il legislatore l’ha resa obbligatoria fin dal 2008 ma la norma – per essere operativa – aveva bisogno di regole tecniche che sono state emanate solo nel 2013 e che dovrebbero garantirne l’effettività entro i prossimi due anni. A differenza di quanto pensano in molti, non si tratta soltanto di una norma che interessa gli addetti ai lavori: questo ritardo è costato allo Stato un mancato risparmio quantificabile in 3 miliardi di euro all’anno (per un totale di 21 miliardi di Euro dal 2008 al 2015, molti di più di quelli che servirebbero per evitare l’aumento dell’IVA o per abolire l’IMU).
Ma questo lo fa un Paese che ha intenzioni serie, non uno che si limita a sfornare norme più o meno utili (da esibire sui giornali e nelle conferenze stampa) che saranno smantellate dalla mancanza di strategia o di risorse, dall’inerzia o dagli atti di un successivo Governo.
Non basta più apparire a favore del digitale, bisogna essere per il digitale. Anche perché, come scriveva Metastasio, “il parere e non essere è come il filare e non tessere”.
ERNESTO BELISARIO